Bellone Niccolò

(Belloni, Bellonus), detto Casalensis o Dolanus di N. Criniti in Dizionario biografico degli italiani, Cfr. www.treccani.it

Di antica famiglia patrizia monferrina, ramo cadetto dei consignori di Altavilla, nacque ai primi del sec. XVI a Casal Sant’Evasio, nel Monferrato (e non a Valenza sul Po, come il Parodi e altri hanno sostenuto per evidente confusione con Paolo Bellone), da Francesco, consigliere del marchese di Monferrato.
Versato nelle lettere, ma ancor più nella scienza legale (anche per tradizione familiare), fu inviato a studiare diritto all’università di Bologna, ove fu discepolo di Carlo Ruini. Fino al 1530 seguì le sue lezioni, avendo poi come maestro Pietro Paolo Parisio, con cui si addottorò (attorno al 1532-1533) in utroque iure.Affermatosi ben presto per la sua serietà e preparazione, proseguì gli studi presso l’università di Pavia, ove fu chiamato da Francesco II Sforza (con lettera ducale del 30 apr. 1535) a sostituire Francesco Ripa nella cattedra di istituzioni. Le sue lezioni, precise ed accurate, gli procurarono un lusinghiero afflusso di studenti, tanto che, sopravvenuta la dominazione spagnola, gli fu riconfermato l’incarico, e nel 1536, con placito di Carlo V, fu nominato lettore “ad iuris civilis ordinariam interpretationem mane faciendam”. A questi anfii risale la sua conoscenza con l’Alciato, che pure insegnava nell’Ateneo pavese diritto civile, nella cattedra de sera.I disordini studenteschi del 1536 contro quest’ultimo dovettero esser causa di qualche attrito col B.; ma nel complesso i rapporti fra i due si mantennero su un piano di reciproca stima e comprensione, come testimonia la loro corrispondenza, protrattasi negli anni e cementata dalla comune amicizia con l’Amerbach.
Anche dopo la partenza dell’Alciato il B. si mantenne fedele al metodo critico filologico, che propagandò durante le sue “letture”, e sercitando un’efficace, quanto prudente azione rinnovatrice. Non ebbe tuttavia alcun allievo di grande valore: l’unico, secondo la tradizione, sarebbe stato Giulio Claro, che egli avrebbe preparato al dottorato. L’affermazione, tuttavia, è erronea, in quanto il Claro si addottorò a Pavia nel 1550, quando il B. già da cinque anni aveva abbandonato l’insegnamento.
Molto noto anche all’estero, in Francia e Svizzera in particolare, nel 1540, chiuso dai Francesi lo Studio pavese, il B. fu invitato dall’università di Valence (Delfinato) a tenere un corso di diritto civile, che egli parve accettare di buon grado. Dopo questa breve esperienza passò come lettore di ius civile all’università di Piacenza “lionorificentissimis conditionibus” (Panciroli), tali da farlo ivi rimanere fino al 1542. Si era nel frattempo fatto amico del potente Nicolas Perrenot de Granvelle, ministro di Carlo V, che, presolo sotto la sua protezione, lo mise direttamente in contatto con Bonifacio Amerbach, a Basilea, aiutandolo quindi, nella sua qualità di consigliere al parlamento di Dóle (Borgogna), a recarsi allo studip locale, l’Academia Burgundiaca, come insegnante, con la notevole remunerazione di i 000 fiorini annui. Quivi il B. insegnò dal 1542 al 1545-1546, svolgendo la sua più proficua attività scientifica, e nelle officine librarie di Basilea, col patrocinio dell’Amerbach, pubblicò tutte le sue maggiori opere, tra cui le lodatissime Supputationum iuris (1542) e il Consiliorum liber primus (1544).
Il B. tornò nel 1546 a Milano, avendo deciso di abbandonare l’insegnamento per dedicarsi a un’attività di consulenza privata. Su presentazione del Granvelle, venne da Ferrante Gonzaga nominato ne! 1546 membro del Senato milanese. Nello stesso 1546 si trovò incaricato della delicata missione riguardante Francesco Burlamacchi, che gli valse, suo malgrado, l’astiosa antipatia di molta parte dei posteri.
Nel fermento della prima metà del sec. XVI il Burlamacchi si era proposto di rovesciare la dominazione medicea in Toscana per formare, con Lucca e altri luoghi, un solo Stato unitario. Ma la delazione di Andrea Pissini aveva stroncato nel 1546 la vasta congiura contro Cosimo I (e, come sidiceva, anche contro Carlo V con l’appoggio dei protestanti ginevrini). Arrestato, mentre cercava di fuggire dalla Repubblica di Lucca, il Burlamacchi era stato subito sottoposto a processo, mentre Cosimo I reclamava il diritto di giudicarlo personalmente a Firenze. Il Lucca aveva rifiutato, sollecitando nel contempo l’intervento di Carlo V nel processo, per stornare da sé ogni sospetto e insieme per cercar di salvare ilproprio gonfaloniere: l’imperatore aveva interessato della cosa il governatore dello Stato di Milano, Ferrante Gonzaga, imponendogli il 13 settembre d’inviare a Lucca un uomo d’indiscutibile capacità, per interrogare egiudicare il Burlamacchi, secondo le leggi imperiali.Prontamente fu inviato il B. (31 settembre), col titolo di commissario imperiale, dal momento che, come il Gonzaga scrisse a Carlo V, “il caso non ricerca manco autorità, quanto massimamente si debbe venire a discutere se il reo debba essere posto alla tortura et che modo di procedere, sia da tenere con lui”. Accompagnato da Cristoforo Trenta, inviato dagli Anziani di Lucca, che lo “teneva bene edificato”, e, sembra, dopo una rapida consultazione con Cosimo de’ Medici, il B. giunse a Lucca, dove istituì un nuovo processo (13-19 ottobre). Le consuetudini giudiziarie dell’epoca, tuttavia, richiesero un rinnovo di torture che non portarono alcun altro elemento, né rivelazione di nuove circostanze o di altri complici, se non quelli già compromessi o in salvo. Il comportamento del B. fu imparziale e il suo trattamento del Burlamacchi conforme alle regole processuali del tempo. Tuttavia alcuni storici, come il Masi, vollero vedere in lui lo “sgherro imperiale”, mosso solo dalla “furia bestiale”, con evidente illazione ottocentesca di sapore patriottico e anticlericale.
Il B., anche per le precarie condizioni del Burlamacchi, dovette rinunciare a portare più avanti il processo e tornò a Milano (7-8 novembre): a Ferrante Gonzaga presentò gli atti relativi alla sua missione, donde risultò l’innocenza della Repubblica e, nello stesso tempo, la colpevolezza di lesa maestà del Burlamacchi, che aveva tentato di turbare l’ordine e le leggi dell’impero.
L’ingrata missione spinse ancor più il B. a dedicarsi agli studi giuridici (è del 1549 la pubblicazione, a Basilea, dell’Opera belloniana). Tuttavia, nel 1551, una lettera dell’Amerbach (p. 512) Ci avverte che egli svolgeva le funzioni di governatore della Lorena, in un periodo particolarmente delicato, che culminò coll’occupazione francese dei tre vescovati lorenesi. Nel 1552, infine, il suo nome veniva incluso dal governatore di Milano nella tema da cui doveva essere scelto il “regens cancellariam status Mediolani”, il senatore cioè che aveva il compito di assistere l’imperatore nella “expedixion de los negocios assi de govierno como de justicia y otros”. Ma l’improvvisa morte, avvenuta ai primi di giugno (in Germania, secondo il Guasco), impedì la sua probabile elezione.
Lasciò due figli, Giovanni (professore a Padova nel 1594) e Iacopo, poeta tragico e comico: il Guasco, che nella sua recente genealogia non pare conoscerli, menziona invece un Marcantonio, proconsole, nel 1565, di Casale.
Il B., come giurista, è nel novero di quelle figure “minori” della prima metà del sec. XVI, a cui con tanto interesse guarda oggi la storiografia giuridica, alla ricerca di una più approfondita valutazione critica della polemica metodologica che accompagna nella sua ascesa l’umanesimo giuridico. A richiamare l’attenzione sulla sua opera èproprio quella singolare bivalenza di metodo che lega tutt’insieme moduli bartolistici ad analisi culte, bivalenza che non sfuggì neppure ai contemporanei, e trova riscontro persino in una delle opere più di punta della famosa polemica sul mos iura docendi, il De turis interpretibus del Gentili, ove acutamente questi si domandava cosa inducesse alcuni giuristi umanisti, ed in particolare l’Alciato e gli alciatei, a distinguere Bartolo dal metodo di Bartolo, e nell’esemplificarne le contraddizioni portava innanzi, tra gli altri, l’esempio del B. (“Quid Bellonus ? ‘Bartolus acerrimi iudicii vir in iuris índucendis'”).
Troviamo qui il B. considerato tra gli scolari (“discipulus italus”) dell’Alciato, ma un rapporto discepolare certamente non vi fu (contrariamente alle notizie del Panciroli e del Mazzuchelli), sibbene un legame di stima e di amicizia e una comunanza di vedute e di orientamenti scientifici, maturati nell’atmosfera ciilturale dei primi decenni del 1500 italiano. Ciò non toglie che la ben altrimenti ricca e forte personalità dell’Alciato debba aver lascìato certamente un’impronta decisiva sulla sua formazione specie negli anni del magistero pavese.
L’analisi delle opere dei B. aiuta tuttavia ad intendere più a fondo la natura di tali legami: la prima di queste, i Supputationum iuris libri quattuor, uscita a Basilea nel 1542 01 (e ivi ripubblicata nel 1544 e nel 1549, P i a Colonia nel 1576 in una raccolta di Novae declarationes et variae lectiones resolutionesque iuris, e ancora a Venezia nel 1585 e a Colonia nel 1609), dedicata al vescovo Antoine Perrenot de Granvelle, figlio di Nicolas, è una raccolta di problemi giuridici individuati con quel gusto frammentario e asistematico proprio del primo umanesimo giuridico: raccolta il cui motivo informatore sembra essere fin dai primi capitoli legato ad una valutazione positiva della norma, intesa cioè come emanazione della volontà sovrana del principe. Valga ad esempio la ripresa dei motivi della antiqua quaestio tra Lotario e Azzone, “an magistratus quibus competit meruin imperium habeat in proprium, an vero usuin tantum imperii, et proprietas apud principem”, che faceva senz’altro concludere il B. in favore della seconda ipotesi. Egli infatti, dopo aver rielaborato la nozione romanistica di un “imperium deductum ad actum” distinta dal suo “exercitium”, affermava significativamente “quod (magistratus) administrant nomine principis, cum nam a populo in principern collatum esset omnem imperium, et quod… non potuit princeps omnia solus administrare” (p. 549).
Non deve sfuggire come tali conclusioni, pur mediante l’elaborazione concettuale bartolistica, si presentano del tutto estrapolate dal quadro delle fonti normative medievali. Per avere un’ulteriore conferma di ciò si guardi agli spunti del B. sul diritto naturale contenuti nelle sue Lucubrationes super utraque parte Institutionum, uscite a Basilea nel 1544 (ancora a Lione nel 1557 e 1568, a Venezia nel 1563, 1573, 1583 e nel 1621), l’opera che, con i Consilia, ebbe maggior fortuna e diffusione. Torna in esse la nozione ulpianea dello ius naturale, depurata d’ogni sublimazione etico-religiosa (“istud tale ius nihil aliud est quam instinctus naturae, ut declarat Socinus”, p. 62) e tutta volta ad un ribaltamento qualitativo del tradizionale sistema normativo, al finedi porre ín primo piano lo ius civile, nella sua nozione di diritto che promana dalla voluntas del princeps.
Inteso in tal senso il diritto civile acquista così, in modo esclusivo, la funzione di qualificare giuridicamente le norme oggettive di comportamento, da un punto di vista sia formale sia sostanziale. Valgano in proposito queste osservazioni del B. in tema di testamento: “… ego autem nego fuisse testamentum de iure gentium, neque cum forma, neque sine forma, sed erat quaedam simplex dispositio innominata. Subijcio ad fundandani hanc meam considerationeni exemplum et bonum simile. Stipulatio, si sibi forma adimatur, nihil aliud est quam conventio simplex, et nuda iuris gentium… sequitur propter hoc quod inventione sit de iure gentium? Certe non. Error est, quia cum ius civile formavit, illam conventionem, nominavit eani stipulationem, et sic stipulatio origine et forma est de iure civili. Item est dicendum in testamentum” (p. 109).
Questa così netta qualificazione scientifica fa del B. un punto di riferimento interessante e ricco di implicazioni nel quadro di una valutazione più generale del pensiero giuridico umanistico. Egli ebbe certamente più le qualità e i mezzi tecnici del giurista che il gusto storico-filologico dell’umanista, come del resto appare dalla sua opera, ma seppe tuttavia recuperare in parte gli strumenti esegetici dell’umanesimo, e soprattutto il senso della polemica antimedievale di quel movimento. È in ciò che va cercata la sua filiazione culturale dall’Alciato e dal primo umanesimo giudirico italiano, e in questi limiti va pure intesa la valutazione parzialmente positiva di un Alberico Gentili.
L’opera giuridica del B. si completa, oltre che col già menzionato volume di Consilia, dal titolo Consiliorum liber primus…, uscito a Basilea nel 1544 (ristampato, in una seconda edizione molto ampliata, nel 1550 a Lione, nel 1573 a Francoforte, nel 1574 a Lione e a Venezia, e ivi ancora nel 1584), con dei Commentaria in institutionem iuris (usciti a Basilea nel 1542 e ristampati nel 1544 e nel 1573 a Venezia) e con la Quaestio ad quem sit appellandum a Subconservatore (uscita sempre a Basilea nel 1542 e ivi ancora nel 1544, e nel 1573 a Lione e Francoforte). Nel 1544, a Basilea, pubblicò: In rubricam codicum qui ad bonorum possessionum admittuntur (riedito a Lione e Francoforte nel 1573), la Quaestio de exhaeredatione liberorum, la Repetitio rubricam digestorum de Officio eius cui est mandata iurisdictio (riedito a Colonia nel 1609) e le Repetitiones et Tractus dedicate all’abate “Luxoriensis” Francesco Bonualoto.
Nel 1547 a Basilea (e ancora a Venezia nel 1565) pubblicò la celebre opera del Porzio, Super tres priores Institutionum divi Iustiniani libros commentaria, dotandola di una ricca introduzione e di indici (cui, postume, furono aggiunte le sue Additiones ad commentarium in institutiones Ch. Portii, Venezia 1572 e 1580). Di questa. fatica del B. abbiamo un interessante accenno in una sua lettera all’Amerbach (30 dic. 1543), in cui egli discute i criteri editoriali, proponendosi di apporre “in marginibus” le additiones di Giason del Maino “quaemadmodum in aliis quoque codicibus fieri solet”, aggiungendo “in fine scilicet et separatim interpretationes meas, quibus omnia antiquorum et modernorum dicta super illis titulis in compendium redigi” (Amerbachkorrespondenz, p. 599).
Non deve sfuggire come queste indicazioni non rispondano per il B. soltanto a una preoccupazione d’ordine e di chiarezza editoriale, ma piuttosto alla diversa funzione da lui attribuita alle sue additiones, che a differenza di quelle di Giasone, più che ad arricchire l’apparato delle communes opiniones, sono volte a puntualizzare in termini storicocritici, attraverso l’apparato bibliografico, il complesso dei problemi dogmatici ivi trattati.
Dopo la pubblicazione, a Basilea, della sua Opera (1549), nel 1550 il B. pubblicò a Venezia le note Communes Iuris Sententiae (Lione 1551 e 1553). Postumo fu stampato il De obligationibus (Ticini 1603), da alcuni studiosi attribuito a Paolo Bellone: di data ignota sono il De Translatione possessionis defuncti in superstitem, l’An a Delegato Episcopi possit appellari ad. eius Officialem, vel ad Summum Pontificem (pare, tuttavia, sia stato pubblicato durante la permanenza del B. a Dóle, assieme ad una raccolta di eruditi Responsa)e un Tractatus Antinomiarum.Ma nulla più del titolo ci è dato sapere di queste ultime opere.
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