Carlo II
a cura di GINO BENZONI
Scheda pubblicata in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XX, Roma 1977, pp. 282-287. La presente scheda è stata inserita grazie alla autorizzazione rilasciata dall’ISTITUTO DELLA ENCICLOPEDIA ITALIANA fondata da Giovanni Treccani [Prot. 495/04/DE del 19 novembre 2004] che si ringrazia per la disponibilità.
Duca di Mantova e del Monferrato. – Nacque a Mantova, il 31 ottobre del 1629, da Carlo duca di Rethel (1609-1631), figlio del duca di Mantova Carlo I Gonzaga Nevers, e da Maria (1609-1660), figlia del duca di Mantova Francesco Gonzaga e di Margherita di Savoia. Nel testamento del nonno paterno, steso il 15 agosto 1634 e confermato il 31 maggio 1637 – che, ponendolo sotto la protezione del re cristianissimo, lo affidava, sino alla maggiore età, alla tutela della madre -, fu nominato erede universale di Mantova, del Monferrato e dei possessi francesi; rivendicati questi ultimi senza fortuna dalle zie paterne Maria Luigia e Anna Gonzaga nel corso d’una lite giudiziaria protrattasi dal 1641 al 1651, finiranno con l’essere acquistati dal Mazzarino tra il 1659 e il 1663.
Carlo non ha nemmeno tre anni quando sembra all’ambasciatore veneto Nicolò Dolfin “di nobile ciera, di vivacità di spirito, senza imperfezione veruna di salute” e ne ha otto appena quando un altro rappresentante veneto, Alvise Molin, lo trova “vivace, di bell’indole, per l’età sua di spirito pronto”, tanto che “alle volte gli esce di bocca qualche risposta e concetto proprio d’uomo maturo e da amirarsi nella tenera sua età”; adolescente è, a detta del residente veneziano Pietro Dolce, “ben complesso e di vigorosa struttura di corpo”. Più diffuso il successore di questo, Paolo Vendramin, precisa – in una lettera del 30 dicembre 1648, scritta dunque quando Carlo è ormai uscito dalla minorità ed è “sovrano” a tutti gli effetti, “spedendosi”, come osserva il cronista Amadei, “tutti gli ordini col solo suo nome” – che “mostra senno e sembiante assai superante l’età, la quale apparisce matura da un’armonica consistente proportione, da un’aria e da un volto che spira saviezza e costume incline però a cose liete, molto mostrando godere che al peso che gli vien dal governo gli faccia atlante la madre con sì robusta prudenza. Ella, all’incontro, procura a studio tenerli a fianco e nelle cariche prime soggetti in tutto da lei dipendenti”. Ritratto solo apparentemente positivo ché, decifrando le reticenze eufemistiche, la propensione alle “cose liete” diventa libertinaggio sfrenato, il fidente abbandono alla guida materna neghittosa abdicazione ai propri doveri; la stessa maturità d’aspetto e di giudizio è da intendersi più come frutto d’una precoce iniziazione ai piaceri che espressione d’una personalità già formata. Così interpretato, il giudizio del Vendramin è senz’altro un’acuta previsione, abbondantemente confermata dalla successiva condotta di Carlo, che, se con la sua faticosa e dispendiosa vita di gaudente venne meno agli insegnamenti della madre, nell’azione di governo non seppe sottrarsi alle sue condizionanti e sin ingombranti direttive, senza peraltro avere la capacità di portarle avanti con coerenza e respiro sufficienti.
Maria Gonzaga, capovolgendo l’impostazione filofrancese del suocero, aveva impresso una decisa svolta filoasburgica alla politica estera mantovana; e aveva ipotecato in tal senso anche il futuro concordando le nozze della figlia Eleonora con l’imperatore Ferdinando III, avvenute poi nel 1651, e di Carlo con Isabella Clara figlia dell’arciduca Leopoldo e nipote dell’imperatore Ferdinando II. Il matrimonio di C., celebrato il 7 novembre 1649, sarà allietato, il 31 agosto 1652, dalla nascita dell’erede, Ferdinando Carlo. Ad ulteriore garanzia che non si riallacciassero troppo vincolanti rapporti con la Francia, allo scadere della reggenza, Maria si era preoccupata di contornare il figlio d’uomini a lei ligi, in specie ponendogli a fianco come primo ministro il marchese della Val, che di fatto accentrava su di sé ogni responsabilità.
“Le seul ministre effectiv et le maître absolu” della “conduite” di Carlo lo definiva l’inviato francese Bernard du Plessis-Besançon, preoccupato inoltre che le sue “volontés” fossero “non moins favorables aux Espagnols que défavorables pour la France”; non si poteva invece far gran conto di Carlo – scriveva al Mazzarino l’11 giugno 1653 – il quale, pur essendo “un prince fort bien fait de sa personne et qui a beaucoup d’esprit”, era purtroppo incapace d’applicarsi “aux choses sérieuses”, sì che “il se décharge absolument de toutes ses affaires sur le marquis della Val”.
D’altra parte il peggioramento delle relazioni con la Francia parallelo al rafforzamento dei legami con gli Asburgo – culminato nel congiunto assedio ispano-mantovano dell’ottobre del 1652 a Casale, seguito dall’estromissione del presidio francese sostituito da truppe gonzaghesche – trovava una sua giustificazione nel rifiuto di Carlo, determinato ovviamente dalla madre e dai suoi consiglieri, d’accettare la conferma del trattato di Cherasco inserita, soprattutto per volontà francese, nelle clausole della pace di Westfalia del 24 ottobre 1648. Ove appunto, malgrado la vivace opposizione del diplomatico mantovano Francesco Nerli, s’era ribadita la parziale cessione delle terre monferrine alla casa di Savoia, senza peraltro aggiornare la cifra di 494 mila scudi (al cui pagamento s’era impegnata la Francia) fissata a Cherasco per l’acquisto, col computo degli interessi maturati dal 1631.
Dopo la vittoria sulla Fronda, il Mazzarino, libero di riprendere la direzione della politica estera e deciso al recupero delle posizioni compromesse, inviò in Italia il du Plessis-Besançon, coll’ordine, tra l’altro – così l’istruzione del 27 gennaio 1653 – di dire a chiare lettere a Carlo che “le roi” l’avrebbe ritenuto “pour ennemi, s’il ne lui donne satisfaction au sujet de Casal, non seulement en s’obligeant de ne le point céder aux Espagnols, mais de l’avoir mis en état qu’il ne puisse être pris par eux”. Intimazione cui Carlo rispose per iscritto l’11 giugno 1653, in modo tutt’altro che soddisfacente, perché alle assicurazioni d’indipendenza s’accompagnava implicito il rifiuto del controllo francese: prometteva infatti – così il du Plessis-Besançon – che “saura se conserver unique possesseur de ses places, sans y introduire les Espagnols ni aucun autre”, grazie alla “protection des deux impératrices”, le due Eleonore, sorella l’una e prozia materna e vedova di Ferdinando II l’altra, “sous la parole et l’autorité des quelles l’arrangement a été fait”.
Nella convinzione tuttavia che Carlo, per quanto “i suoi principali ministri” siano “tutt’affatto spagnuoli”, “sia”, invece, “d’animo francese” (così in una lettera del 18 luglio 1653), Mazzarino non disperò d’attirarlo dalla sua parte, valendosi anche delle autorevoli pressioni veneziane. Non senza successo se il 23 luglio 1655 poteva annunciare al Colbert l’imminente arrivo di Carlo a Parigi. Né la forma privata del soggiorno parigino – nel corso del quale pare siano iniziate le trattative per l’acquisto, da parte del cardinale, dei ducati di Nevers e di Rethel costituenti l’eredità francese di Carlo – impedì risultati politici; Carlo infatti vi si impegnò se non proprio a secondare la politica del Mazzarino in Italia, quanto meno a non appoggiare quella spagnola. Sì che il Senato veneto scriveva, il 27 settembre 1655, al proprio ambasciatore a Parigi che egli “mostra di volersi conservare indipendente e libero”. Proposito però poco duraturo, poiché Carlo – geloso del credito accordato dal Mazzarino al duca di Modena Francesco I, nei confronti del quale nutriva, come ebbe ad osservare il du Plessis-Besançon, una “emulation” ben presto “dégénérée en quelque espèce d’aversion approchant de la haine” (anche sua madre, rilevava l’8 ott. 1647 il residente veneto Dolce, mostrava “di stimar per capital nemico il… duca di Modena”) – concludeva col governatore di Milano conte di Fuensaldaña il trattato di Casale del 21 marzo 1657, che lo impegnava all’alleanza difensiva e offensiva con la Spagna e l’imperatore; il quale lo gratificava col conferimento del vicariato imperiale e il grado di generalissimo delle armi imperiali, che da un lato lo eguagliava al rivale, generalissimo delle armi francesi in Italia, dall’altro veniva incontro al suo cronico bisogno di danaro, comportando lo stipendio mensile di 30 mila scudi e l’assegnazione annua di altri 80 mila.
Ben scarso comunque ed infido l’apporto di Carlo alla nuova alleanza; non tenta nemmeno il recupero di Valenza cui era di per sé tenuto e concerta, tramite contatti segreti col du Plessis-Besançon, una sorta di ripiegamento sulla neutralità, dal quale comunque lo dissuade la presenza militare spagnola sul Po. Ma per poco; ché, quando, nell’autunno del 1657, le truppe di Francesco I invasero il Mantovano e vi si acquartierarono, Carlo, preso dal panico e aderendo alle insistenze di Venezia e della diplomazia francese, e pur tuttavia non senza svolgere una parallela azione presso l’alleato che s’accingeva ad abbandonare, concludeva, il 9 luglio 1658, un trattato col duca di Modena, in virtù del quale Carlo assicurava la propria neutralità e il secondo s’impegnava, di conseguenza, a non arrecare più danni alle terre di Carlo, riaccolto “en ses bonnes graces” dal re di Francia.
D’un alleato siffatto comunque, così costoso e così infedele, né la Spagna – il Fuensaldaña non aveva fatto nulla per impedirne il voltafaccia – né la Francia tenevano ormai, di fatto, gran conto. Ne risultò per Carlo, privato del vicariato e generatato imperiali, una posizione di pericoloso isolamento, coll’unico appoggio della Serenissima da sempre interessata alla quiete di Mantova (ove aveva, dal 1631, un presidio, ritirato, dietro richiesta di Carlo, nel 1662). Tentò di uscirne dichiarandosi disposto ad accettare il generalato francese in Italia purché garantito che, nella contesa monferrina con i Savoia, ci sarebbe stata “una giusta redditione de conti e restitutione de stati” oppure si sarebbero previsti congrui indennizzi finanziari e territoriali. Offerta di scarso interesse in una situazione di progressiva convergenza franco-spagnola sulla necessità del mantenimento dello status quo in Italia, che ha il suo risultato più evidente nell’articolo 94 della pace dei Pirenei, secondo quale “dautant que les divisions ou pretensions contraires des maisons de Savoye et de Mantoüe ont plusiers fois excité des troubles dan l’Italie… il est convenu et accordé, pour le bien de la paix, que les traittez faits a Querasque… seron executez selon leur forme et teneur”. Vane le proteste di Carlo, magramente compensato colla conferma, di poco precedente, da parte dell’imperatore Leopoldo I, dell’investitura di Luzzara e di Reggiolo, che peraltro i Gonzaga di Guastalla si rifiuteranno di consegnargli. Non gli rimase che la sterile soddisfazione di sabotare la definizione giuridica e finanziaria della vertenza che l’articolo 95 della pace di Pirenei, voluto dal Mazzarino, aveva demandato ai due interessati: fallita infatti la conferenza di Valenza dell’inizio del 1660, ebbero pure esito negativo i due successivi tentativi d’accordo tenutisi a Parigi nel 1663 e 1664. Politica estera in conclusione fallimentare nei risultati, condotta inoltre in modo sussultorio e velleitario: riflesso questo della tensione, esistente a corte, tra elementi filoasburgici e filofrancesi, in cui si inquadra, ad esempio, la caduta in disgrazia, nell’ottobre del 1658, del primo segretario di Stato conte Angelo Taracchia, accusato appunto, tra l’altro, di segrete intese con i Francesi.
Meno movimentata la vita interna dei ducati mantovano e monferrino durante il governo di Carlo: si possono ricordare l’introduzione a Mantova dei carmelitani scalzi e delle cappuccine, il favore accordato da C. all’Accademia dei Timidi, la tolleranza, dettata peraltro da ragioni fiscali, accordata agli ebrei – costretti ad ogni modo, lo ricorda l’Amadei, al “solito segnale sul cappello” e a “tenervi sopra una nastro di filosello, color giallo, quattro dita largo” -, facilitati inoltre nella loro attività economiche. Il 7 gennaio 1662, ad esempio, Carlo proroga la concessione di “trattenere” per 5 anni “i stabili che li sono stati dati in pagamento; né avendo potuto in detto tempo farne esito”, erano autorizzati ad usufruirne per “altri cinque anni ancora”, prima di “farne la vendita”. Ma pochi decreti d’una qualche calcolata apertura e accortezza non bastano sicuramente a riscattare Carlo dalla pessima gestione finanziaria, cui fu indotto dal suo smodato amore pel lusso, le feste, i banchetti, le giostre, i tornei, le cacce, i “fuochi” per appagare il quale sperperò non solo il proprio denaro, ma, con altrettanta disinvoltura, anche quello dell’erario. E, poiché nemmeno le entrate fiscali erano sufficienti, non esitò dall’imporre contributi straordinari – quale quello di 60 mila scudi annui del 1650-1652, parte del quale fu utilizzato per le splendide accoglienze, nel febbraio del 1652, agli arciduchi d’Austria Sigismondo e Ferdinando Carlo – e dall’utilizzare la zecca, compromettendo in breve tempo i risultati dell’avveduta politica monetaria della madre.
Basti pensare che, nel 1648, in appena due mesi, furono battute parpagliole del valore di 10 mila ducatoni; e i “mercanti”, i quali assistevano con spavento alla ripresa incontrollata della circolazione di monete erose, abilmente contenuta invece nel periodo della reggenza, dovettero supplicare più volte che fosse frenata una così irresponsabile emissione di moneta svilita, che li obbligava ad altissimi premi per procurarsi quella pregiata, necessaria per gli acquisti all’estero.
Scialacquatore e libertino Carlo, ma non del tutto grossolano nei suoi tentativi di conferire alla vita di corte un tono non totalmente immemore del passato prodigo splendore. È al suo servizio il cuoco Bartolomeo Stefani, di cui resta memorabile negli annali della culinaria il banchetto, sontuoso sino all’allucinazione, organizzato in onore di Cristina di Svezia il 27 novembre 1655; valenti architetti s’occuparono della scenografia delle rappresentazioni e dell’allestimento d’apparati per feste e funerali, mentre la modificazione della struttura del teatro di corte fu affidata da Carlo a Gaspare Vigarani. Particolare inoltre la cura di Carlo per riordinare i resti del patrimonio artistico sfuggiti al saccheggio del 1630 e per ricostituire una cospicua galleria ricca di pregevoli dipinti e statue; per lui lavorarono pittori quali Sustermann e Guercino, felice di non “risparmiare… fatiche” pur “di sodisfare in qualche minima parte alla sublimità del suo genio”; per lui i fratelli Giovanni Benedetto e Salvatore Castiglione cercavano e compravano, in varie città d’Italia, gli esemplari migliori. E il primo riusciva a scovare a Venezia una “bellissima lampada d’argento” e vi trattava l’acquisto d’un quadro del “divino” Tiziano con “Adone e Venere con amori et altre bizzarie” nonché di “qualche pezzo” del Veronese; il secondo annunciava a Carlo da Genova il 3 aprile 1661 d’aver ricevuto dal principe Centurione “il bellissimo quadro di mano del famoso Raffaello”.
Ma caratterizzò soprattutto Carlo un’ingorda smania erotica, che compromise i suoi rapporti con la moglie – la quale lo ripagò iniziando una relazione col conte Carlo Bulgarini – e finì con lo screditare la sua figura di principe. Era noto infatti l’influsso esercitato su di lui dall’amante, l’intrigante Margherita della Rovere, oggetto d’un pettegolo libello del Leti, non tanto scandalistico però, ché la passione per lei di Carlo vi appare esclusiva; noto pure il motivo delle sue frequenti puntate a Venezia, dove aveva come ambasciatore il conte Antonio Bosso, il quale, robusto amatore in proprio più che diplomatico, soleva informarlo su la Blachetta, la Vachetta, la Speciaretta, la Sorghetta – questi i nomi delle cortigiane di cui Carlo era affezionato cliente -, preoccupandosi anche d’assicurarlo, per conto di tal “Giemma, pratichissimo conduttore nelli affari venerei”, che, tornando a Venezia, avrebbe trovata in abbondanza “robettina assai fresca”.
Non stupisce che la fine prematura, il 14 agosto 1665, sia apparsa ai contemporanei meritato sigillo di troppi eccessi: “der Herzog von Mantua” – scrive l’imperatore Leopoldo I al conte Pötting – è “gestorben et quidem culpa sua, id est per suos amores”. Ma ci fu anche chi sospettò fosse stato avvelenato dalla moglie d’accordo col Bulgarini. Più semplicemente l’Amadei che di Carlo darà un giudizio favorevole (“belle qualità dell’animo… clemenza… voglioso di beneficare… eminenti virtù… dotto… versato… nelle lettere… anzi nella poesia… eccellente”), scusando i suoi “amoretti” con la scarsa avvenenza della consorte – l’attribuirà ad un improvviso attacco d'”acutissima febbre”.
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