Ferdinando Carlo
a cura di G. BONZONI
Scheda pubblicata in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XLVI, Roma 1996, pp. 283-294.
La presente scheda è stata inserita grazie alla autorizzazione rilasciata dall’ISTITUTO DELLA ENCICLOPEDIA ITALIANA fondata da Giovanni Treccani [Prot. 495/04/DE del 19 novembre 2004] che si ringrazia per la disponibilità.
Unico figlio del duca di Mantova Carlo II e di Isabella Clara d’Asburgo, figlia dell’arciduca Leopoldo e nipote dell’imperatore Ferdinando II, nacque il 31 ag. 1652, a Revere presso Mantova. Certo non giovò alla crescita e alla formazione di F. il poco edificante clima familiare, ché il padre era donnaiolo impenitente e la madre non disdegnava distrazioni sino ad allacciare una relazione stabile e di pubblico dominio col conte Carlo Bulgarini. Politicamente positivo, comunque, il rapporto tra i due dal momento che i quattro anni della reggenza materna successivi alla morte di Carlo II del 14 ag. 1665 furono caratterizzati dallo sforzo – che Isabella Clara condusse, appunto, insieme col Bulgarini – d’autonomizzare il Ducato rispetto all’opprimente condizionamento cesareo. Sicché – anche se, come asseriva, tra gli altri, nel 1667 il residente genovese a Parigi Bernardo Baliano, «passa oggidì il duca di Mantova», ossia F., «totalmente per austriaco» – i due miravano a predisporre, non senza irritazione di Vienna, dei margini di manovra.
Ciò vale anche dopo che F., uscito di minorità, assunse, nell’agosto del 1669, ufficialmente il governo esordendo con la missione viennese del conte Luigi Canossa e coll’invio – un po’ platealmente retorico – a Venezia d’un « reggimento ausiliario mantovano» di cinquecento fanti scelti in soccorso della lotta antiturca ormai agli sgoccioli. Ma non seguirono, da parte di F., altre disposizioni; fiacco di carattere, svogliato, neghittoso e, insieme, ingordo, come già il padre, di grossolani divertimenti, gli mancarono l’energia e la determinazione per un’applicazione continuata agli affari di Stato, cui invece provvide l’avveduta effettiva direzione della madre che s’avvalse dei consigli del Bulgarini. Né F. diede segni di maturazione dopo le nozze, precedute dai relativi contratti del 14 ag. 1670 e trattato del 26 dicembre, festeggiatissime, del 7 apr. 1671, – a realizzare le quali concorse l’interessamento della zia paterna Eleonora, la vedova dell’imperatore Ferdinando III -, con Anna Isabella, figlia primogenita di Ferdinando o Ferrante (III) Gonzaga duca di Guastalla, la quale, virtuosa ed avvenente, gli portò in dote, in ottemperanza ai patti nuziali ratificati il 26 dic. 1670 previa approvazione imperiale, il definitivo possesso di Luzzara e Reggiolo, i cui abitanti gli prestarono giuramento di fedeltà, nonché, in prospettiva, l’eredità guastallese.
Nel contempo, venne portato a compimento il disegno viennese d’eliminare l’influenza della madre col pretesto di porre fine alla scandalosa – ma non va escluso la legittimasse un matrimonio segreto, come mostra di credere tra i contemporanei Simon Arnauld de Pomponne – unione col Bulgarini. A poco servì i due amanti riparassero nel castello di Goito, che qui li raggiunse, il 16 dicembre, il commissario cesareo conte Gottlieb Amadeus Windisch-Grätz, il quale, forte d’una decisione pontificia in tal senso, ingiunse ad entrambi d’abbracciare lo stato monastico. E così Bulgarini fu costretto alla dimora nel convento mantovano dei domenicani; e ad Isabella Clara venne imposto il soggiorno in quello, sempre mantovano, delle orsoline dove – anche se, di fatto, la segregazione non sarà assoluta poiché avrà modo d’allontanarsi di frequente – morrà il 25 febbr. 1685.
Dannosissimo, per F., questo ritiro conventuale della madre: da un lato la sua indole si disfrenò vieppiù, dall’altro i suoi eccessi accresciuti risultarono politicamente screditanti, senza che Isabella Clara potesse porvi rimedio frapponendo il proprio attendibile ruolo direttivo. Scriteriato e irresponsabile F. si tuffò nei bagordi e si assentò sempre più da Mantova per sempre più prolungati soggiorni a Venezia.
Né sono misteriosi i motivi di queste sue continue puntate lagunari, se il rappresentante francese presso la Serenissima Jean-Antoine de Mesmes conte d’Avaux avvisava, nel 1673, Luigi XIV che «le due de Mantoue… ne s’acquiert pas ici beaucoup d’estime”, dal momento che trascorreva il suo tempo tra «courtisans» e «comédiens». Travolto da vizi e stravizi già lo sfiancavano quei « maux » che facevano piangere – ed è evidente che era Anna Isabella la donna in lacrime — « les honnêtes femmes qui ont des maris débauchés».
Ben presto pessima la nomea di F. e cristallizzata in negativo crescendo. Poiché era dissoluto, lo si disse depravato e, quindi, debosciato. E anche se – a palmare attestazione della sua capacità riproduttiva – avrà, da donne diverse, ben sei figli naturali – gli si attribuì, una volta per tutte, la responsabilità dell’infecondo talamo nuziale. E già il matrimonio sterile ridestava i fantasmi delle guerre di successione per la mancanza d’erede, sicché il dissipato intontirsi nelle gozzoviglie di F. fu inteso come presagio e preludio di rovinosa catastrofe. Ne bastò qualche intermittente disposizione di F. – come quella, ad esempio, del 5 febbr. 1680, a dir della quale (di contro all’ordine papale. del 29 genn. 1679, ingiungente all’inquisitore mantovano di costringere gli ebrei all’ascolto della predica in chiesa) gli ebrei, il cui contributo era una sostanziosa voce attiva per le casse statali, non andavano «astretti» al sermone cattolico, ma erano invece, «liberi» d’andare «alle prediche… a loro beneplacito» — a restituirgli un minimo di prestigio.
Morto, il 17 genn. 1678, il suocero Ferrante (III), F., in applicazione dei capitoli matrimoniali, prese possesso del ducato di Guastalla suscitando le proteste di Vespasiano Gonzaga, fratello del defunto, e di Vincenzo Gonzaga, cugino d’entrambi.
Non riconosciute, per fortuna, dal Consiglio aulico imperiale le pretese del primo, laddove, invece, quelle del secondo furono appoggiate dalla corte estense e da quella farnesiana, gelose dell’ingrandimento gonzaghesco, nonché dalla Spagna che, in segno di palese ostilità, sospese il pagamento del contributo annuo di 50.000 scudi al presidio di Casale ottenuto da Isabella Clara durante la reggenza. E, a rafforzamento delle sue aspirazioni su Guastalla, Vincenzo Gonzaga, malgrado la notevole differenza d’età, si sposò, deposta la veste sacerdotale, il 30 giugno del 1679, con Maria Vittoria Gonzaga, sorella della moglie di F., divenendo così cognato, non ceno gradito, di questo.
Urtato dalla revoca del contributo spagnolo, indispettito dalle contestazioni ai suoi diritti, spaventato dall’isolamento che avvertiva attorno a sé, pressato dall’estremo bisogno di denaro, F. – proprio nella fase della contrastata successione guastallese – si volse alla Francia. E ciò occultamente, tramite il gentiluomo bolognese Ercole Antonio Mattioli da F. (che di lui s’avvalse come procacciatore di donne oltre che come agente diplomatico) creato senatore soprannumerario di Mantova col titolo di conte.
Dopo prolungate trattative avviate a Venezia durante il carnevale del 1678 si ebbe, l’8 dicembre, a Parigi un trattato segreto sottoscritto dal Mattioli per conto di F. e da S. A. de Pompone per conto di Luigi XIV. Il trattato prevedeva l’insediabilità, contraccambiata col versamento di 100.000 scudi annui, a Casale d’un presidio francese e il virtuale comando per l’imbelle F. delle truppe francesi in Italia.
L’accordo era di per sé un clamoroso voltafaccia da parte di F. feudatario imperiale; ben per questo doveva rimanere celato. Purtroppo il Mattioli – da tempo informatore prezzolato di vari principi e sospinto dall’avidità di denaro al più spericolato doppiogiochismo – passando per Torino, al rientro dalla Francia, non esitò a vendere alla duchessa sabauda Maria Giovanna Battista Nemours l’esplosivo segreto, così preparando incautamente la propria rovina.
Catturato con azione fulminea dai Francesi, trasportato nel maggio a Pinerolo, morrà in carcere nel 1703 a Parigi, definitivamente tacitato e non senza – nelle vociferazioni sull’inappurata identità del misterioso detenuto della Francia col volto occultato da una maschera di velluto nero con molle di ferro — si supponesse fosse egli stesso la cosiddetta «maschera di ferro».
Non era interesse di Luigi XIV – dopo che anche la Spagna e l’Impero si erano acconciati a sottoscrivere, rispettivamente il 17 sett. 1678 e il 5 febbr. 1679, la fine delle ostilità – forzare la situazione. Sicché l’esistenza del trattato parigino venne ufficialmente negata. E, quanto a F., non gli restò che rinnegarlo, a sua volta, spudoratamente sostenendo che non c’era mai stato, che tutto era stato un imbroglio architettato dallo sciagurato Mattioli. Naturalmente Luigi XIV non rinunciò alla prospettiva pel momento accantonata; e a tal fine premettero assidui su F. i suoi rappresentanti a Mantova Nicolas de Gamont dal luglio del 1679 al maggio del 1680 e quindi Jean Morel, abate di Saint-Arnoul, il quale, gran mangiatore e gran bevitore nonché instancabile femminiere, fu ben in grado di guadagnarsi l’affetto di F, avendolo sodale in un turbinio di smodati banchetti. Vanamente Innocenze XI tentò – inviando a Mantova Marco d’Aviano munito di credenziali da esibire alla madre; ed il fatto si contasse su di lei suona implicito riconoscimento che era stato un errore relegarla in convento – di richiamare F. al senso del proprio dovere. La missione del cappuccino ebbe, infatti, un esito fallimentare.
Era lo stesso d’Aviano a riconoscere, riferendone al segretario di Stato card. Alderamo Cibo in una lett. del 24 apr. 1681, come non ci fosse da sperare nella «conversione» di F. a beneficio «di tutta la christianità» (una formulazione lata, laddove il vero scopo della puntata mantovana del frate era quello di arginare il totale assorbimento nell’orbita francese di F., di cui s’andava dicendo stesse svendendo alla Francia il Ducato, impegnandosi addirittura a non avere eredi si da poterlo cedere, alla sua morte, a questa). Isabella Clara – riassumeva d’Aviano – era si riuscita a fargli « havere udienza» da F., l’«acciecato, povero prencipe», il quale «non ammette facilmente» alla sua presenza « persone che si possi persuaderle li parlino dell’interessi dell’anima»; ma l’udienza, proseguiva avvilito d’Aviano, non aveva dato alcun frutto. « Li ho parlato con tutta cordialità e destrezza», essendo «ascoltato con espressioni di giubilo et m’ha dato segni di voler pensare all’anima sua. Ma – cosi sempre il cappuccino -, se devo dire il mio sentimento, temo continuerà nel stato infelice che si trova, correndo voce commune sii amaliato. E si può credere sii così da quello che fa, ch’accadendoli frequentemente accidenti gravissimi » – quale quello del luglio del 1680, quando aveva rischiato di morire per essersi ostinato a montare un cavallo focoso (ed era Morel a scriverne al re Sole, commentando che ” il semble que ce prince n’a autre empressement que de chercher sa ruine par quelques malheureux accidens aux queis il s’espose tous les jours ») -, lungi dal farsi più accorto, «non per questo se ne profila, anzi va di male in peggio. Onde non resta se non ch’Iddio, con la sua infinita misericordia, gl’ammolisca il core. Vostra Eminenza… può assicurarsi che, s’havessi potuto solevarlo et aiutarlo, l’haverei fatto con il proprio sangue. Intanto non tralascierò di raccomandarlo a… Iddio nelle mie debolissime orationi».
Tutt’altro che preoccupato della salvezza dell’anima di F. e, semmai, interessato ad approfittare proprio dell’inclinazione di F. a perderla, l’abate Morel si limitava nel frattempo a constatare che, a causa della sua passione pei cavalli, correva dei pericoli, e che, a causa dei suoi incessanti «desordres», aveva spesso «une tres mechante couleur» e che, a causa di «quelques debauches secretes», era sovente torpido e distratto. Né l’abate, che, di fatto, assecondava le propensioni di F., riesce a celare una certa ammirazione per la sfrenatezza dei suoi continui «commerces de galanterie»: non contento delle quattro o cinque cortigiane -precisava Morel a Luigi XIV il 4 genn. 1681 -colle quali «a pratique tous les jours», F. s’era pure incapricciato d’un paio di «chanteuses dans les opera», avendo pure modo di fare scenate di gelosia a tutte queste sue donne,
Cosi occupato F. non si dava molto pensiero per l’affare di Casale ed era, anche per questo, malleabile. Sicché non era difficile, per Morel, indurlo al trattato dell’8 luglio 1681 che, firmato il 20 agosto, venne approvato a Parigi il 28 settembre. In virtù di questo – mentre F., per salvare la faccia, si fingeva sorpreso da un improvviso colpo di mano francese – Nicolas de Catinat entrò, il 30 dicembre, a Casale, ne arrestò i magistrati cittadini per poi espellerli e ne cacciò il presidio gonzaghesco.
Totale, a questo punto, il discredito di F., unanimemente giudicato lo spregevole zimbello del re Sole. Questi, infatti, cosi risolvendo «il negozio di Casale», dispone della «base» pei suoi «vasti… disegni» sulla penisola, come prevede, ancora nel 1680, il rappresentante veneto presso di lui Domenico Contarini. Casale è – rimarca lo stesso – «sito… nel cuore dell’Italia, sopra di un fiume… molto opportuno per facilitare l’impresa di Genova del Milanese e degli stati adiacenti». Sdegnata con F. ora Venezia, dove, pure, il 27 febbr. 1679, lo si era onorato con esercizi equestri mascherati, e dove pure, come s’apprende da una lettera di Morel del 4 genn. 1681, ci si era limitati ad un larvato rimprovero quando, penetrato da una finestra con bravi nella casa di un nobile Molin, aveva violentato un’amante di questo trattenuta a forza dai suoi uomini, cosi vendicandosi del fatto che lo stesso gli era stato preferito da una donna da entrambi corteggiata (e a Molin, che veementemente protestava contro l’infamia perpetrata da F., gli inquisitori di Stato avevano ingiunto il silenzio). Sicché il Senato, nel 1682, lo dichiarò compagnia infrequentabile pei nobili veneziani. Ciò non toglie che questo duca fantoccio – tallonato e sorvegliato dappresso dai residenti stabili francesi Louis Nicolas Le Tonnellier barone di Breteuil e da Amador Gombaud signore de la Giulletterie, il primo a Mantova nel 1682-84, il secondo subentrato a questi per rimanervi sino al 1688 – continui imperturbabile a ripresentarsi puntuale ogni anno all’appuntamento del carnevale veneziano, al solito determinato a gozzovigliare senza ritegno,
- era, appunto, da poco reduce dal carnevale lagunare del 1686, quando, il 3 aprile, parti – preceduto dal marchese Annibale Cavriani e dal tesoriere Benedetto Sordi e accompagnato da vari nobili nonché dal teatino leccese Gaetano Lubelli, suo confessore e teologo, e dal residente francese Gombaud la cui vigilanza era continuata – alla volta di Roma. Qui giunto il 9, prendendo alloggio nel palazzo di Monte Giordano (attuale palazzo Taverna), la sera del 10 fu ricevuto dal pontefice Innocenzo XI, il quale lo trattò affabilmente, rilasciando poi – ad incoraggiamento della temporanea compunzione di F. – la bolla del 20 luglio concedente la celebrazione della messa e la recita dell’ufficio e il 12 marzo e ogni venerdì del mese in onore del sangue sgorgato dal costato di Cristo la cui reliquia – ritrovata nell’804; e l’avrebbe nascosta nel 36 d. C. il protomartire Longino – è vanto della basilica mantovana di S. Andrea.
Intensamente mondano, altresì, il soggiorno romano di F., allietato da ricevimenti ed incontri e soprattutto dalla frequentazione di Cristina di Svezia, la cui dimora era abbellita da arazzi, tappezzerie e pitture già razziati nel sacco di Mantova e poi finiti in Isvezia. E non mancarono le lusinghe alla vanità di F.: fu durante un trattenimento nella villa del Vascello, fuori porta S. Pancrazio, dove soleva esibirsi la celebre virtuosa Angela Voglia detta la Giorgina, che s’esegui per lui la cantata Il Tevere e la gloria (Bracciano 1686).
Lasciata Roma – e la sua partenza venne puntualmente pianta nella cantata II Tebro piangente – il 16 maggio per un breve soggiorno a Napoli, quivi non adeguatamente (riluttava a chiamarlo «altezza»; d’altra parte F. si screditò trastullandosi, nell’albergo dei Tre Re, con le canterine Giulietta Zulfi e Rina Scarano) complimentato dal viceré Gaspar Méndez de Haro marchese del Carpio, F., ripassando il 26 per Roma, rientrò a Mantova il 18 giugno. Ma smanioso di muoversi – « il etait de ceux qui se trouvent toujours mieux ailleurs que chez eux», commentava Gombaud costretto a stargli sempre alle costole – il 4 novembre parti per Genova dove giunse il 9 essendovi omaggiato da quanti, tra i nobili locali, erano titolari di feudi monferrini.
Ammirata la Riviera, visitato il santuario mariano di Savona, data un’occhiata alle fortificazioni (parodia di principe F. contava, in tal modo, di figurare come intendente di cose militari), F, si portò quindi, il 4 dicembre, a Milano, quivi trattato con ogni riguardo dal governatore don Antonio Lopez de Ayala Velasco e Cardenas, conte di Fuensalida, contraccambiato da F. con profusione di preziosi doni. Rientrato, il 9 dicembre, a Mantova, parti nuovamente, con un seguito di sessantasette persone – che uno storico piacentino del ‘700 bollerà come « tagliacantoni», cosi ironizzando sulle loro pretese qualità militari -, il 26 giugno 1687, alla volta di Trento, che raggiunse il 28, per proseguire per Innsbruck, dove l’accolse la cugina Eleonora, figlia della zia paterna Eleonora (la cui scomparsa, del 5 dic. 1686, aveva significato, per F., la perdita d’un’autorevole protezione a Vienna) e dell’imperatore Ferdinando III nonché moglie del duca Carlo Leopoldo di Lorena, il conquistatore di Buda.
Arrivato, quindi, a Vienna, il 14 luglio, l’imperatore Leopoldo I ne lusingò la vanità – cosi contando d’allentare un po’ la sua supina soggezione alla Francia – colmandolo di riguardi e complimenti e preoccupandosi personalmente perché il soggiorno gli fosse reso piacevole con battute di caccia nei dintorni della capitale. Rimessosi in viaggio il 24, il 25 era a Pozsony (Bratislava), il 28 a Strigonia, il 29 a Buda dove – cenando coi più alti ufficiali e ostentando interesse per la guerra in corso e visitando la fortezza di Pest – rimase sino al 4 agosto. Raggiunto, infine, il 7, il campo cesareo e quivi alloggiato, fu lo stesso duca di Lorena ad illustrargli modi e fini dell’offensiva imperiale e ad assecondarlo laddove F. desiderava ispezionare le postazioni. E gli venne dato persino modo d’assistere al vittorioso scontro del 12 cui seguì la presa di Siklos. Sicché F. – ripassando per Vienna, dove giunse il 30 e donde riparti in settembre – rientrò a Mantova in ottobre non senza pavoneggiarsi quasi l’essere stato spettatore d’una vittoria sui Turchi fosse, di per sé, un gesto valoroso di cui menar vanto e per cui pretendere elogi.
Vanitosissimo, F. si piccava d’essere un competente in fatto di guerra. Cosi, anche se de Breteuil aveva constatato, ancora nel 1683, che non v’era a Mantova un solo soldato su cui far affidamento tra i seicento uomini della guarnigione. Questa, si scandalizzava il rappresentante francese, era un’accozzaglia infingarda e cialtrona e gli ufficiali non erano uomini d’arme, ma valletti e lacchè messi a capo d’una compagnia in compenso di qualche basso servigio. F. – osservava, proprio quando questi più s’atteggiava a guerriero, Gombaud – non era che un crapulone: «n’a nulle application aux affaires et ne pense qu’à ses plaisirs». La corte assomigliava a un grottesco serraglio ove s’adunavano, attratte dai compensi e dai regali di F., avventuriere, ballerine, commedianti, cantanti, quasi tutte bene in carne, che cosi F. le preferiva. Egli le pagava tutte, ogni tanto s’invaghiva di qualcuna e, comunque, pretendeva una sorta d’esclusiva: le voleva tutte attorno, tutte a sua disposizione. E quando una di queste preferì andarsene a Monaco, attirata dall’elettore di Baviera Massimiliano Emanuele II di Witteisbach, F. arse di sdegno e di propositi vendicativi. La sua furente gelosia diventò un affare di Stato; ed intervennero le diplomazie a placarne le ire. E pure col governatore di Milano conte di Fuensalida nacquero attriti perché qualcuna preferiva la protezione di questo a quella offerta da Ferdinando.
In ogni caso F. non governava: il grosso del suo tempo era pignorato e dalle donne radunate in un vero e proprio gineceo e dai cavalli di razza delle sue fornitissime scuderie.
Alieno da qualsiasi accenno d’impegno serio, F. diventava, per converso, serissimo se si trattava d’organizzare – in ciò gareggiando col duca di Modena Francesco II d’Este – il dispendiosissimo e fastosissimo carnevale mantovano del 1688 culminato in un magnifico carosello d’oltre una quarantina di dame vestite da amazzoni e d’altrettanti gentiluomini a cavallo precedenti un carro trionfale, attorniato da ventiquattro ninfe e ventiquattro tritoni, ove era assiso Nettuno sollecitato dal Po, dal Mincio ed altri fiumi ad ammirare l’equestre danza.
Sorta d’immaturo fanciullone viziato e vizioso, «gran enfant» scriteriato e capriccioso, il duca era sorvegliato a vista dai rappresentanti del re Sole costretti a «braver la fièvre des marais mantouans» perché non sgarrasse in fatto di politica estera, perché non sgusciasse dalla mano francese che lo serrava. L’arresto del marchese Luigi Canossa troppo legato alla corte cesarea e con questa intrigante e la concessione alla Francia della custodia della stessa Mantova erano, comunque, bastevoli ad attestare, da parte di F., quel « bon vouloir » che a Versailles si pretendeva con ciò perdonando «aux défauts de son caractère» e, semmai, su questi contando.
- era troppo grossolano ed infantile per voler essere duca di fatto oltre che di nome. Gli bastava figurare. E come era convinto d’aver partecipato alla guerra antiturca una prima volta, cosi volle essere presente nuovamente, gratificato dalla cronachistica locale che alla «prima campagna d’Ungheria» fece seguire una «seconda». A tal fine s’accinse a partire assumendo, per civetteria, il falso nome di marchese di Viadana e pretendendo, nel contempo, un corteggio spropositato persino per un re.
Questo constava di 550 persone (delle quali non più di 100 erano virtualmente in grado di battersi) tra garzoni, lacchè, maestri di stalla, cocchieri, staffieri, mulattieri, cuochi, sottocuochi, bottiglieri, paggi, aiutanti di camera, inservienti, furieri, credenzieri, guardie del corpo, marescalchi, armaioli, vivandieri, provveditori alla provianda, corrieri, trombetti; e non mancavano il tesoriere, il medico personale e due chirurghi. Circa 500, altresì, i muli e i cavalli; e s’aggiungevano una trentina di barche, una trentina di padiglioni tre dei quali splendidi, vari tipi di «baracche», carrozze, due delle quali sontuose che «da comparsa». E, a complicare la partenza, F. dispose d’aver con sé tante vesti, il miglior vasellame, preziosa posateria, nonché lenzuola finissime, coperte, tappeti, tendaggi. Sicché, per far partire il tutto, occorse – tra il 10 giugno ed il 15 luglio 1688 – oltre un mese.
Comunque F. in luglio era già a Vienna, dove l’imperatore gli rilasciò, il 22, una commendatizia per l’elettore di Baviera Massimiliano Emanuele; e, nell’atto di congedarlo, gli donò una splendida spada sicché potesse brandirla minaccioso nella sua determinazione a raggiungere il campo in qualità di «volontario». Complimentosamente accolto dall’elettore, il comandante supremo delle operazioni antiturche, F. s’insediò allora coi suoi vistosi padiglioni nel quartiere generale, partecipò alle sedute del Consiglio di guerra, assistette all’assedio di Belgrado e prese parte, stando – a detta della cronachistica mantovana – a fianco del generalissimo (e, cosi, dimenticando, per l’illustre occasione, i motivi di gelosia che li avevano contrapposti) all’assalto decisivo del 6 settembre, entrando anch’egli da trionfatore nella città conquistata. Dopo di che, tutto tronfio, rientrò, il 12 ottobre, a Mantova. E tal Ferdinando Carlo Baccanelli non esitò a celebrarlo con un discorso e poesia (cfr. Mazzatinti, XVII, p. 165).
Ma, a scorno del suo cipiglio guerriero, l’attendeva un cocente smacco: Fuensalida, che così si vendicava degli intralci frapposti da F. alle sue imprese galanti, lo umiliò platealmente disponendo l’abbattimento delle fortificazioni – invise ai duchi di Parma e di Modena timorosi del loro utilizzo pel controllo del Po – da lui fatte erigere a Gaustalla. F. insisteva, a tal fine, anche nell’autunno del 1688 per avere un contributo francese alle spese, anche se Luigi XIV, irritato perché s’era recato «a militare in Ungheria», a tutta prima gli aveva «sospesa la pensione che se gli pagava», come aveva scritto il 9 agosto il nunzio pontificio a Parigi Angelo Ranuzzi. E lo stesso aggiunge, il 6 dicembre, che Luigi XIV pretendeva d’assoldare 3.000 «fanti nei stati» di F., incurante delle «repugnanze» di questo. Quanto a Fuensalida, a nulla servi che F. protestasse verbalmente; il governatore di Milano l’atterri con la minaccia d’assedio. Cosi, impotente ed impaurito, F. subì lo smantellamento d’opere costate ben 40.000 scudi d’oro. E l’umiliazione si fece totale quando, nel febbraio del 1690, venne demolita pure l’antica rocca. Vieppiù tremebondo, altresì, F. all’inizio del 1691 – proprio l’anno in cui, involontariamente sarcastico, Giovanni Andrea Cavazzoni Zanotti, allora al suo servizio, gli dedicò la sua traduzione del Cid di Corneille che usci a Bologna col titolo Onore contro amore – quando, alla testa d’un nutrito contingente di truppe, Fuensalida rientrò provocatoriamente nel Mantovano senza alcuna plausibile motivazione salvo quella – di cui corse voce – volesse cosi, a nome del re di Spagna, garantire Sabbioneta al duca di San Pietro Francesco Maria Spinola che l’aveva acquistata per 300.000 ducati. Ed il terrore era tale che, affidata in tutta fretta la reggenza alla moglie e all’assistenza del marchese Ferdinando degli Obizzi (l’inviato imperiale per dirimere i contrasti sempre vivi tra lui e il cognato Vincenzo Gonzaga), scappò letteralmente a Venezia. E ciò non senza disdoro della stessa Francia, che s’era ingegnata di tranquillizzarlo verbalmente raccomandandolo altresì al papa e alla Serenissima. Una fuga ignominiosa la sua, che gettò nella costernazione e nel panico la popolazione. E, mentre F., una volta a Venezia, si preoccupava di far trasferire da Mantova a Ferrara tale « Madalena detta la Zota di Piazuola» e «la Mora», Anna Isabella diede prova di pacata fermezza rincuorando i Mantovani colla traversata a cavallo della città, a mo’ di visibile segno della sussistenza del Ducato. Ed avviò, inoltre, con Diego Felippez de Guzmán marchese di Leganés, per fortuna di F. subentrato a Fuensalida nel governatorato di Milano, trattative che si conclusero coll’accordo di Gazzuolo, in virtù del quale – contestualmente alla demolizione di tutte le recenti fortificazioni erette, a rivalsa di quelle abbattute a Guastalla, nelle terre adiacenti al Po e all’Oglio e all’impegno di mantenere rigorosamente neutrale il Ducato – si verificò lo sgombero delle milizie spagnole. Solo a questo punto F. ebbe l’ardire di rientrare. Evidentemente lo si era trattato cosi malamente per avvisarlo che non poteva impunemente puntellare gli interessi francesi.
Era ulteriore severa ammonizione in tal senso il diploma cesareo del 4 maggio 1692 autorizzante l’insediamento a Guastalla, Luzzara e Reggiolo del cognato Vincenzo Gonzaga, valido sinché non sarà da F. adeguatamente ricompensato, come, a suo tempo, aveva richiesto la riserva accompagnante il beneplacito imperiale alle nozze di F. con Anna Isabella. Vane le querimonie e le proteste di F., vana la missione a Vienna del conte Luigi Castelli Montiglio, pur gradito a Leopoldo I, che Vincenzo Gonzaga, con l’appoggio delle truppe spagnole, prese possesso delle località, e, ottenuta l’investitura il 19 ag. 1693, iniziò – sempre militarmente sorretto dalla Spagna – a fortificare Guastalla.
Furibondo F., lungi dallo staccarsi dalla Francia, si strinse ancor più a questa, al punto da impegnarsi ad accogliere – ogni qualvolta lo richiedesse – sue truppe a Mantova. Ma ciò mobilitò l’attenzione pressante di Vienna che esigette ed ottenne, nell’aprile del 1694, l’allontanamento del residente francese Roland Jachiet du Pre; e, a sorvegliare direttamente F., giunse, l’11 novembre, il diplomatico cesareo conte Giambattista di Castelbarco.
Segui, nel 1695, la farsesca vicenda di Casale, di cui Vittorio Amedeo II – da un lato alleato coll’Impero, dall’altro interessato a non approfondire il solco con la Francia — concertò la resa col governatore Pierre de Perrien, marchese di Crevan. Dopo la firma, del I° luglio, della capitolazione, ci fu, l’11 agosto, la consegna della piazza colle fortificazioni completamente smantellate. Non restò, a questo punto, che restituire la città – resa militarmente inoffensiva colla decapitazione della cittadella – a F.: una reintegrazione – per quanto ingloriosa – a suo vantaggio, che un po’ lo compensava dell’inutilità dei suoi ricorsi contro Vincenzo Gonzaga. A questo – nella decisione imperiale del 13 apr. 1699 che penalizzava pesantemente F. – venne riconfermata l’investitura del ducato di Guastalla e venne ribadita l’autorizzazione al mantenimento di Luzzara e Reggiolo sinché non ottenesse soddisfazione d’ogni suo credito da parte di F., tenuto a restituire le rendite – calcolate sui 6.000 scudi annui – percepite dal 1678 al 1692.
Avvilito, F. si consolò nella magnifica cavallerizza progettata per lui, in un cortile del palazzo, da Ferdinando Galli Bibbiena, al quale si deve pure l’ideazione del teatro Nuovo, i cui lavori, iniziati nel 1706, proseguirono poi sotto la sorveglianza d’Andrea Galluzzi; occorse, comunque, attendere il 27 dic. 1732 perché l’edificio fosse inaugurato. Sfavorevole, in effetti, la congiuntura all’affiorare in F. d’un’esigenza di rifarsi – forse anche a risarcimento delle umiliazioni politiche – in qualche modo alla già splendida tradizione artistica gonzaghesca. Sballottato dagli eventi, la guerra di successione spagnola gli impedì d’acquistare un qualche credito per lo meno come committente, visto che, su altri piani, non poteva vantare alcunché; lo stesso estimo generale di tutto il Ducato del 1692 s’era, infatti, nel suo basarsi sul metodo dell’autodenuncia, rivelato insoddisfacente. Per questo F. si compiacque delle dediche; «nume tutelare delle muse», lo chiamava, nel 1700, Tommaso Albinoni a lui dedicando un’edizione di sue composizioni strumentali. E le dediche proseguirono anche quando F. era ormai politicamente naufragato; fu ben a lui infatti che, durante il carnevale veneziano del 1704, Apostolo Zeno dedicò il Pirro, «drama per musica da rappresentarsi nel teatro di s. Angelo ».
Il 5 apr. 1701, dopo un finto assalto francese, F., fingendo gran terrore – in realtà la simulata aggressione e la parvenza di difesa erano state concordate ancora in febbraio -, apri le porte alle truppe franco-ispane, le quali si insediarono a Mantova («condannata dal mal francese», allora la città, infetta di « mal del gallo », ironizzavano dei sarcastici versi anonimi cit. in R. Navarrini, Nel segno di Rahab. Note sulla prostituzione a Mantova…, in Atti e mem. dell’Acc. Virgiliana, n. s., VI [1987], pp. 225 s.), ottimo punto d’appoggio pel controllo del medio Po, stabilmente, come vera e propria guarnigione la quale, stando ad un rapporto del 12 agosto d’Eugenio di Savoia, constava di 8 battaglioni francesi e di uno spagnolo, irrobustendosi, nel 1702, sino a contare 15 battaglioni per un totale d’8.775 fanti cui s’aggiunsero 2 squadroni di cavalleria ammontanti a 1.440 cavalli. Col che – per quanto si camuffasse a mo’ di vittima sorpresa dagli eventi – F. diventò una pedina francese. Sicché l’imperatore Leopoldo I, respingendo sdegnato le giustificazioni dell’ambasciatore straordinario a Vienna, il conte abate Ludovico Fantoni, il 20 maggio 1701, citò F. come reo di fellonia davanti al tribunale imperiale, lo destituì dalla sovranità e sciolse i sudditi dall’obbligo d’obbedienza per F. che -«per aver proditoriamente data Mantova et sua fortezza» al nemico – non era più loro «principe naturale».
Né della sua sovranità furono gran che rispettosi gli stessi Francesi dal momento che -come riferiva nel luglio Eugenio di Savoia – un trombetto da questo a lui inviato con una lettera venne bruscamente rimandato indietro con minaccia di morte qualora s’azzardasse a farla, in qualche modo, pervenire al destinatario. Ed inappagato restò il desiderio di F. – di cui Eugenio di Savoia venne a conoscenza grazie ad un’intercettazione, nell’aprile del 1702, della « posta mantovana » – di « comandare un corpo nel suo territorio». Comprensibile non gli si desse una minima parvenza d’autorità militare, dal momento che – mentre Mantova era stretta dappresso dalle truppe d’Eugenio di Savoia, il territorio era devastato, la popolazione era ridotta alla fame e montava sempre più l’avversione contro gli occupanti e F. – la vita di corte proseguiva coi soliti trastulli e ricevimenti. Le feste poi vi proseguivano sino all’alba sicché, come osservava il plenipotenziario francese Jean Baptiste Rene de Froulay, conte di Tessé (questi aveva già avuto modo di constatare come l’enorme spada che F. portava al fianco avesse l’elsa ripiena di fazzolettini, ninnoli, tabacchiere), non sembra nemmeno la guerra fosse «a nos portes».
Comunque, nell’agosto del 1702, il blocco, iniziato nel dicembre del 1701 e fattosi minaccioso soprattutto nel maggio, s’allentò; segui, il 9 settembre, la vittoria francese a Guastalla, già sgomberata da Vincenzo Gonzaga, la cui « fedeltà » all’« imperiale interesse», elogiata più volte da Eugenio di Savoia, lo contrapponeva alla supina dipendenza dalla Francia di F., il quale – come attestano le sue lettere del dicembre 1702-luglio 1703 al governatore di Guastalla conte Cesare Ardizzone – ne spogliò letteralmente il palazzo del mobilio, delle suppellettili più preziose e di tutti i cavalli.
F., inoltre, approfittò della ripresa franco-ispana, che assicurava libertà di movimento, per trasferirsi, con imponente corteo di carri e carrozze, a Casale. Lo seguiva un variopinto stuolo di musici, di commedianti e di donne belloccie e grassottelle, delle quali la contessa monferrina Calori, un tempo sua preferita, era un po’ la sovrintendente. A Mantova (nel cui governo F. introdusse, il 18 luglio 1703, le cariche di vicepresidente, di generale delle Acque e di questore legale) rimase la moglie che, infermatasi nell’estate del 1703, vi mori – assistita dal conte Carlantonio Beccaguti, con tutta probabilità suo amante – il 19 novembre, senza che F., il quale già il 15 aveva nominato, in sua sostituzione, un supremo Consiglio di reggenza, si sentisse in dovere d’accorrere al suo capezzale.
Tutto sommato la vedovanza non gli dispiaceva; poteva così mirare e risposarsi con speranza di prole legittima, laddove i figli naturali stavano ben a dimostrare che non era sua la responsabilità d’un matrimonio infecondo. Ed ecco che – avendo al suo fianco a mo’ di mentore l’inviato francese Jacques Vincent Languent conte di Clergy e, al solito, con un imponente seguito -, l’8 marzo 1704, lasciò Casale alla volta di Lione. Ripartito da questa il 21 aprile e visitata Charleville ove lo si festeggiò calorosamente. E, l’8 maggio, era a Parigi.
Varie le prospettive matrimoniali che qui gli si offrivano: ed egli, scartata una Condé garantente una dote di 200.000 scudi epperò decisamente brutta e fisicamente malandata, optò per la diciannovenne Enrichetta Susanna di Lorena Elbeuf, di quella ben più appetibile anche se sprovvista di dote. Preso, quindi, il 31 agosto a Versailles, congedo da Luigi XIV (il quale gli donò la sua stessa spada incitandolo, è probabile ironicamente, ad adoperarla vigorosamente e per l’onor suo e per quello di Francia), F. il 23 ottobre era di nuovo a Casale. Di qui si portò a Tortona, ad attendervi la futura sposa, la quale sbarcò a Genova. E, celebrate le nozze a Tortona 1’8 novembre, il 16 la coppia principesca fece il suo ingresso a Casale. In questa rimase per oltre un anno sinché F. – incoraggiato dall’andamento, favorevole ai Gallo-Ispani, del conflitto – non ritornò, desideroso di rilanciare con più fasto la vita di corte, il 29 dic. 1705, a Mantova, quivi raggiunto dalla giovane sposa – il cui ingresso fu salutato festosamente dalla popolazione – il 4 marzo 1706.
Crescente, però, nel contempo, il disagio con cui F. viveva il suo rapporto di dipendenza con la Francia: non mancavano gli screzi con Versailles ed era acceso il contrasto col duca Louis-Joseph di Vendôme, il generalissimo delle forze franco-ispane operanti in Italia. Da parte francese si riteneva F. inaffidabile; e F., d’altro canto, puntava ad una qualche intesa coll’Impero, vagheggiava d’uscire, in qualche modo, dalla stretta d’una guerra che tante sofferenze infliggeva al Mantovano e al Monferrato e d’ottenere, colla mediazione del duca di Lorena, dal nuovo imperatore Giuseppe I l’investitura del Ducato.
Decisiva svolta, nell’andamento della guerra, la battaglia di Torino del 7 settembre: un trionfo per Eugenio di Savoia che determinò il tracollo delle forze gallo-ispane, i cui resti malridotti ripararono a Mantova, mentre Casale veniva presa il 29 novembre. Era prossima per F. la messa in atto del bando la cui « pubblication » – come spiegava un ordine imperiale del 25 ottobre – era stata « protratta fino ad ora» non già per «clemenza o indulgenza da lui non meritata», ma per l’impossibilità di renderlo esecutivo. Il panico s’impadroni di F.: sordo al suggerimento di riparare a Bologna con la moglie mettendosi sotto la protezione pontificia, il 21 genn. 1707 scappò ignominiosamente – da solo, che la moglie rimase pel momento a Mantova -, con un manipolo di cortigiani e protetto da una scorta francese, alla volta di Venezia.
Ciò nell’irragionevole illusione di poter in qualche modo salvaguardare la titolarità del Ducato che – come scriveva l’8 febbraio Eugenio di Savoia all’imperatore – «tra le… lettere intercette in questi giorni ne ho avute anche alcune del duca di Mantova… donde risulta che, per mezzo del duca di Lorena, si sta concertando di sotto mano un tractat ». E, invece, sottolineava Eugenio di Savoia, «questo duca » andava « judicirt secondo le leggi dell’impero». Nessun riguardo per F., abbandonato dall’alleato francese, negli accordi stipulati a Milano il 13 marzo: in questi, oltre a stabilire lo sgombero delle milizie franco- spagnole dall’Italia, già s’anticipava il passaggio del Mantovano all’Impero e del Monferrato ai Savoia.
Sacrificato da tutti F. e ignorato persino da sua moglie, la quale, il I° aprile, lasciò Mantova e – munita d’un «passport» rilasciatele da Eugenio di Savoia, tramite il quale si raccomandava alla «grazia imperiale » perché le fosse concessa « la invocata pension » – iniziò il viaggio, come precisava il principe Eugenio, «per andare in Francia e di là in Lorena». Né in questa rimarrà a lungo, che preferirà poi, usufruendo d’una pensione assegnatale da Luigi XIV, trasferirsi a Parigi, ove morrà, ad appena 25 anni, il 19 dic. 1710. Attuata, nel frattempo, con decisione la prospettiva già chiaramente formulata da Eugenio di Savoia scrivendo a Giuseppe I ancora il 24 marzo 1707: quella dell’assunzione definitiva, da parte dell’imperatore, della « possession » di Mantova per «poi incorporare quel dominio allo stato di Milano», così divenendo «padrone dell’Italia». Quanto a F. – cui non restava che racimolare il più possibile le sue cose; ed era per questo che, il 13 maggio, parti, a lui indirizzata, da Mantova una barca di tal « paron Marchesini » carica di « codici e libri » -, Eugenio di Savoia, pur disprezzandolo, temeva si prestasse a qualche balorda operazione.
Ci sarebbero state – così il principe sabaudo a Giuseppe I dal «campo di La Valette», il 5 agosto – «mire dei veneziani su Mantova»; per cui – sguarnendo «altre piazze» – aveva disposto d’aggiungere alla guarnigione imperiale altri 1.400 uomini. Non si sarebbe trattato – si preoccupava Eugenio di Savoia – di vociferazioni da prendere sotto gamba. «Quelle dannose mire – insisteva – sono confirmate anche per la via di Francia. E si dice di più che il duca di Mantova dovrebbe prestarvi il nome e finger di aver comperato alquante truppe dai veneziani».
Eccessivamente apprensivo il generalissimo cesareo nel far credito alla Serenissima di disegni espansivi e a F. – di per sé innocuo – d’un disperato bisogno di combattiva rivalsa. Quest’ultimo trascorreva i suoi giorni a Mira, dove aveva radunato i suoi amati cavalli. Cosi facendo non ambiva certo a contrapporsi alla spropositata preponderanza imperiale. E fu a Mira che, nel giugno del 1708, per l’urto violento d’un’accidentale caduta, F. fu colto da un atroce dolore al petto, mentre – reduce dalla rappresentanza della Serenissima presso il re Sole – l’ambasciatore Lorenzo Tiepolo, nella sua relazione del 14, dava per scontata l’insussistenza d’ogni speranza d’una sua rinascita politica. « Si vede con passione – asseriva Tiepolo – lo stato presente di Mantova, e sarebbe desiderabile che quel principe s’avesse conciliato qualche stima; ma, quando si parla della sua persona, ogni discorso termina nel commiserare il suo stato».
Poiché le sue condizioni fisiche s’aggravavano, F. fu trasferito a Padova – nel palazzo Mocenigo-Querini (ora in via S. Eufemia e attuale casa della studentessa) edificato ancora nel 1558 consultando in merito, pare, Palladio; ed è in questo palazzo che nascerà, il 30 nov. 1831, Ippolito Nievo -, sicché il suo medico personale Formighi potesse consultare i docenti di medicina più rinomati dell’ateneo quali Antonio Vallisnieri, Giovanni Antonio Casali, Michelangelo Molinetto.
Ma a nulla valse l’adunarsi attorno al suo letto d’illustri luminari che, il 5 luglio del 1708, F. – per sua fortuna ignaro della dichiarazione di Ratisbona del 30 giugno che lo decretava decaduto, per fellonia, da ogni diritto e da ogni pretesa -spirò piamente, assistito dal suo teologo personale, il minore osservante Gherli.
Quella mattina – come s’affrettavano ad avvisare, nello stesso giorno, il Senato e i rettori – F. era stato colto, «poco prima di levarsi di letto», da «grave deliquio», si che «in un momento» è «passato all’altra vita». Seguirono -piuttosto modeste (poco il denaro liquido reperito all’uopo nel palazzo, dove, inoltre, in un primo tempo, non risultavano gran che nemmeno gli «effetti»: delle posate d’argento, delle reliquie, una croce con diamanti, un orologio; ma, da un successivo inventario ivi redatto nel 1709 alla presenza del pittore Niccolo Cassana, risulteranno presenti quadri ed arazzi di Rubens) – di «notte» le esequie. Si scatenavano nel frattempo le ipotesi sulle cause della scomparsa di F.: ci fu chi lo fece morire d’avvilimento, chi di stravizi, chi di veleno. Ma, mentre la discussione in merito ben presto s’esaurì, subentrò, ben più accanita, la contesa per la sua eredità, che F. era scomparso senza lasciare un testamento. Donde, mentre per disposizione del Senato veneto si procedeva ad un’accurata inventariazione – e questa ragguagliava e sui «cavalli» «carrozze» «fornimenti» a Mira, nel Vicentino, a Padova e, più ancora, sugli oggetti d’arte, specie sui quadri a mano a mano fatti confluire nel palazzo (ora Michiel dalle Colonne) di F. a Venezia -, la relativa causa, che interessava vari principi europei tutti in grado d’accampare più o meno consistenti legami di parentela, si protrasse a Venezia per oltre tre anni, concludendosi con un discusso verdetto a favore di Carlo di Lorena.
Quanto alla prole illegittima di F., due figlie – Clara Clarina (1686-1749) e Maria Elisabetta (1695-dopo il 1750) — risultano cappuccine a Mantova, un’altra, Isabella Clara (1694-1753), fu terziaria nel monastero mantovano delle serve di Maria ed una (di cui è ignoto l’anno di nascita e che mori a Milano nel 1739), Giovanna, si sposò col conte spagnolo «Jacopo Baiardo-Bardasci, del contado di Rivagorza, nel regno di Tarragona», come precisava il cronista settecentesco Amadei. Ancor più dettagliabile il destino dei figli: il primogenito, Giovanni (1671-1743), educato dai gesuiti, cavaliere gerosolimitano nel 1694, abate della mantovana chiesa di S. Barbara nel 1700, ritornato allo stato laicale e sposatesi nel 1705 con la gentildonna francese Isabella de la Mauransane, visse, dopo il tracollo del dominio gonzaghesco, dapprima in ristrettezze a Cremona e quindi, grazie ad un appannaggio, con più agio a Mantova; il secondo, Carlo (1692-1771), divenuto ecclesiastico, fu funzionario dello Stato pontificio risultando – tra il 1729 e i] [755 – via via governatore di Todi, Sabina, Fabriano, prefetto di Norcia, governatore di Camerino, Fermo, Ancona, Civitavecchia, Frosinone, Viterbo, Perugia, Macerata, essendo quindi canonico di S. Pietro e chierico di camera.
Fonti e Bibl.: Per i documenti conservati alla Bibl. ap. Vaticana cfr. Codd. Vat. lat.10701–10875, a cura di G. B. Borino, Bibl. apost. Vaticana 1947, ff. 32, 404, 423, 455; Codd. Ferraioli, a cura di F. L. Berra, II, ibid. 1947, p. 178; Archivio di Stato di Venezia, Senato. Lett. Padova e Padovan, filza 91, lett. del 5, 6, 7, 17 luglio 1708; Bibl. ap. Vaticana, Vat. lat. 8194, ff. 1 s., 14-19; Roma, Biblioteca Casanatense, ms. 2399: Diario del… duca di Mantova… nella dimora in Roma … 1686;V. G. Borri,Ildivin pellicano. Discorso… al serenissimo F. , Mantova 1666; Honore contra amore. Tragedia ricavata da soggetto spagnuolo vertito allafranceseper G.A.Z[anotti], Bologna 1691; P. Garzoni, Istoria… di Venezia…, I-II, Venezia 1705-1716, ad vocem; Campagne del principe Eugenio di Savoia, III, a cura di L. E. Wetzer, Torino 1891, pp. 189, 207, 215, 333; IV, a cura dello stesso, ibid. 1892, p. 114 e Supplemento. p. 88; V, a cura di A. Danzer, ibid. 1898, p. 38; VII, a cura di G. Rechenberger von Rechkron, ibid. 1894, p. 5; VIII, a cura di E. Mayerhofer von Grünbühl-C. Komers von Linderbach, ibid. 1895, pp. 22 s., 290 s., 450; IX, a cura di C. von Hipsich-C. Komers von Lindenbach, ibid. 1896, Supplemento, pp. 23, 73, 179; Urkunden… aus dem Archivio stor. Gonzaga zu Mantua, a cura di S. Davari, in Jahrbuch der Kunsthist. Sammlungen d. Allerh. Kaiserhauses, XVI (1895), pp. CXCIX-CCII; Recueil des instr…. aux ambassadeurs… de France… Savoie–Sardaigne et Mantoue, a cura di H. de Beaucaire, Paris 1899 (e cfr. la segnalazione di E. Ferrero, Istruzioni di Francia, in Atti della R. Acc. delle scienze di Torino, XXXV (1899-1900), specie pp. 640 s.; Una … rel. sulla corte di Francia nel 1682…, a cura di C. Contessa, Torino 1904, passim; Istruz. e relaz. degli ambasciatori genovesi…, a cura di R. Ciasca, V, Roma 1957, p. 36 n.; Relazioni di amb. veneti, a cura di L. Firpo, IV, Torino 1968, pp. 172, 237, 333 s., 363, 471; VII, ibid. 1975, pp. 197 s., 303, 342, 405 s., 431 s., 497, 655; X, ibid. 1979, pp. 544 s., 601 s., 660 s.;Correspondance du nonce… A. Ranuzzi, a cura di B. Néveu, Rome 1973, ad vocem;Marco d’Aviano, Corrispondenza