Giovanni IV
a cura di ALDO A. SETTIA
Scheda pubblicata in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. LVI, Roma 2000, pp. 131-135.
La presente scheda è stata inserita grazie alla autorizzazione rilasciata dall’ISTITUTO DELLA ENCICLOPEDIA ITALIANA fondata da Giovanni Treccani [Prot. 495/04/DE del 19 novembre 2004] che si ringrazia per la disponibilità.
Figlio di Giangiacomo, marchese di Monferrato dal 1418, e di Giovanna di Savoia, sorella del duca Amedeo VIII, nacque nel castello di Pontestura, presso Casale Monferrato, il 24 giugno 1413, primo di quattro fratelli e due sorelle.
Nel terzo decennio del secolo, ancora adolescente, partecipò in prima persona insieme con il padre, in quanto designato alla successione, ai drammatici avvenimenti che misero a repentaglio la vita stessa dei Marchesato, stretto fra i concentrici appetiti del potente duca di Milano Filippo Maria Visconti e dello zio di G. (il machiavellico Amedeo VIII di Savoia), i quali perseguivano entrambi una politica di espansione priva di scrupoli, in antagonismo, ma nello stesso tempo in collusione, fra loro.
Quando il duca di Milano nel 1432 invase la parte occidentale del Marchesato di Monferrato per rifarsi dei rovesci subiti in Lombardia a opera dei Veneziani, Amedeo VIII offrì al cognato Giangiacomo la sua interessata protezione inducendolo a sottoscrivere un trattato capestro che metteva di fatto nelle sue mani quanto rimaneva delle terre marchionali. Il 31 genn. 1432, tra i pochi fidi che accompagnarono Giangiacomo alla corte sabauda di Thonon era anche G., che fu dunque presente il 13 febbraio seguente alla stipulazione di quel patto segreto.
Quando, il 2 maggio, il padre partì per mettersi sotto la protezione veneziana, G. tornò a Chivasso, dove si era rifugiata la madre insieme con i numerosi figli più giovani: la parte del Marchesato non occupata dal Visconti era ormai passata nelle mani del capitano generale sabaudo residente in Moncalvo; la marchesa e il commissario veneziano in Monferrato avevano formalmente libertà d’azione ma nessuna autorità di fatto.
Con ingenuità che si può ascrivere all’ancor giovane età, G. credeva davvero di poter contare sull’aiuto dello zio per resistere contro i Viscontei; annunciò quindi che il padre era in viaggio verso Venezia e parlò apertamente del patto stipulato a Thonon provocando la diffidenza tanto dei Milanesi quanto dei Sabaudi, mentre il Monferrato occupato veniva scosso da numerose ribellioni antisabaude e i Viscontei continuavano a premere da Oriente. G. e la madre vennero invitati ad astenersi dal combattere e a sottoscrivere la fittizia pace stabilita a Ginevra sin dal 5 giugno, ma comunicata loro solo il 28, provocando da parte di G. una protesta scritta.
Nel febbraio dell’anno successivo, mentre la marchesa rifiutava di consegnare i registri amministrativi richiesti dalle autorità sabaude di occupazione, G. teneva informato il padre esule a Venezia del trattamento cui era sottoposto. Quando, nell’aprile 1433, venne firmata le pace di Ferrara, con la solita ingenuità credette davvero che le traversie fossero finite e ordinò alle Comunità del Marchesato processioni e fuochi di gioia. Cessate le ostilità, il Visconti fu costretto a restituire le terre da lui occupate
Giangiacomo ritornò dall’esilio veneziano, mentre permaneva la “protettrice” occupazione sabauda di cui si prometteva, la rimozione solo mediante il pagamento di un indennizzo di 300.000 fiorini e il rispetto dei patti stipulati a Thonon. Al fine di avviare le pratiche Amedeo VIII già nel febbraio dei 1434 propose che G. lo raggiungesse a Chambéry, proposta che Giangiacomo respinse adducendo lo scarso tempo a disposizione e il costo del viaggio, ma in realtà per non concedere di fatto il figlio in ostaggio al cognato.
Nel maggio Amedeo rinnovò le sue ingiunzioni: il marchese e il figlio erano invitati a presentarsi personalmente. Giangiacomo resistette ancora alle pressioni e cercò, senza trovarne, appoggi politici. Infine, non avendo altra scelta, il 21 nov. 1434 G., autorizzato a trattare in nome del padre, fu inviato a Torino insieme con quattro diplomatici, molti cavalieri, servi e 60 cavalli. Egli continuava a dare prova di non grande accortezza politica: il 10 dicembre si recò ad Avigliana incontro a Ludovico, figlio ed erede di Amedeo VIII inviato in Piemonte come luogotenente per condurre in suo nome le trattative. I due tornarono insieme a Torino discorrendo evasivamente di cacce e di falconi senza affrontare gli argomenti che scottavano.
Il 13 dicembre G. venne ricevuto ufficialmente a palazzo e trattato con ogni riguardo. Fu invitato a escursioni nei dintorni di Torino e ricevette doni che ricambiò, ma le proposte avanzate dai diplomatici monferrini il 31 dicembre venero respinte e si richiese imperiosamente le presenza di Giangiacomo mentre i sabaudi mobilitavano truppe destinate a marciare, si disse, contro i Tizzoni, signori di Crescentino; G. premurosamente si offrì di ospitarle nei suoi luoghi di Settimo e di Chivasso senza comprendere che in realtà quelle forze erano dirette contro di lui.
Capì meglio il 7 genn. 1435 allorché, dato il bando a ulteriori cerimonie, egli venne arrestato e trattenuto come ostaggio mentre l’esercito sabaudo occupava Settimo e assediava Chivasso. Giangiacomo chiese al presidio di resistere a oltranza e ordinò: “Anche se nostro figlio fosse condotto dinanzi alle mura, vogliamo che piuttosto di cedere Chivasso lo lasciate uccidere, ne abbiamo degli altri” (Cognasso, 1918, pp. 414 s.), ma il suo messaggio fu intercettato. Solo allora il marchese si decise a raggiungere Torino e, insieme con il figlio, sottoscrisse il 24 gennaio i gravosi impegni che gli erano imposti, soltanto lievemente attenuati per il benigno intervento dei diplomatici viscontei: tutte le terre a sinistra del Po e a destra del Tanaro furono cedute al duca di Savoia il quale le concesse in feudo a G., ma Chivasso e altre località canavesane furono definitivamente annesse al Ducato sabaudo. Ci si preoccupò anche del futuro: il 2 febbraio, prima di lasciare Torino, G. dovette promettere l’omaggio per eventuali futuri acquisti territoriali in Lombardia a danno del duca di Milano.
Salvato a stento dalla completa rovina il Marchesato, né G. né Giangiacomo mostrarono di sentire come una grave umiliazione i patti iugulatori che i Savoia avevano fatto loro sottoscrivere. In quello stesso sanno G. ricevette dal padre il titolo di signore di Trino (la più importante località che era riuscito a conservare a destra del Po) da trasmettere ai primogeniti destinati alla successione, e con tale titolo G. sottoscrisse il 12 giugno successivo con Ludovico di Savoia un vero e proprio patto di alleanza che prevedeva un circostanziato progetto di spartizione della Lombardia alla morte di Filippo Maria Visconti, destinato naturalmente a rimanere sulla carta.
Il 29 nov. 1440 G., secondo il convenuto, depose nelle mani di Ludovico – succeduto nel frattempo ad Amedeo VIII nella dignità ducale – l’atto di aderenza per le terre oltre Tanaro, e il 4 dicembre ricevette l’investitura per le terre cedute cinque anni prima. Né l’atteggiamento di rispetto verso i Savoia subì mutamenti dopo il 12 marzo 1445 allorché, alla morte dei padre, G. gli succedette nel governo del Marchesato lasciando il titolo di signore di Trino al fratello minore Guglielmo. Egli prestò anche allora il prescritto omaggio a Ludovico, al quale donò inoltre il luogo di Diano d’Alba riottenendolo subito in feudo.
Durante la guerra del Finale, combattuta fra Genova e Milano, G. si mantenne estraneo alla lotta, pur favorendo il fuoruscitismo genovese sulle sue terre. Per tutto il 1446 fu intento a dare disposizioni per il ripristino delle fortificazioni nel Marchesato, attività in cui era assistito dal luogotenente generale Ludovico di Saluzzo; a tale scopo fu costretto a richiedere nuovi contributi in denaro ai sudditi che avevano già dato – egli ammetteva in una sua lettera -“roba, figloli et moglere, et chi più la persona per noy ect lo stato nostro” (Moriondo, I, col. 502).
Nel frattempo il fratello minore Guglielmo, divenuto condottiero di ventura, si era messo in urto con il collega Carlo Gonzaga il quale, per rivalersi, il 6 sett. 1446 saccheggiò inopinatamente le località monferrìne di Cerro, Valmacca e Frassineto restituendole a G. soltanto dietro il pagamento di un riscatto, episodio che rivela una volta di più l’intrinseca debolezza di Giovanni IV.
L’anno dopo, la morte senza eredi di Filippo Maria Visconti scatenò in Italia una nuova ondata di guerre cui nemmeno G. poté esimersi dal partecipare, coltivando speranze di ingrandimento sui territori di Asti e di Alessandria; ma più di lui vi fu coinvolto in prima persona Guglielmo di Monferrato, il quale agiva ambiguamente ora come condottiero in proprio, ora anche per conto del marchese suo fratello, spesso messo in ombra dalla sua ingombrante presenza. Non è naturalmente possibile tenere dietro a tutta la mutevole serie di avvenimenti che allora si susseguirono: il 15 dic. 1447 G. aderì a una lega difensiva con Rainaldo di Dresnay, luogotenente in Italia di Carlo d’Orléans, che, rioccupata Asti, aspirava anch’egli alla successione milanese.
Il 1° nov. 1448, dal canto suo, Guglielmo si mise al servizio di Francesco Sforza con la promessa di avere Alessandria, il suo territorio e quanti altri luoghi, già soggetti in passato ai marchesi di Monferrato, egli sarebbe stato in grado di conquistare; si riservava nondimeno la facoltà di accorrere in aiuto del fratello se il Marchesato fosse stato minacciato.
L’ultima fase della guerra del Finale vide G. schierato contro i Genovesi a fianco dello Sforza, e fu per la sua mediazione che il 7 ag. 1451 le terre del Finale furono restituite a Giovanni Del Carretto. I buoni rapporti tra i Monferrato e lo Sforza vennero presto a guastarsi a causa del possesso di Alessandria.
La città aveva fatto atto di dedizione a Guglielmo di Monferrato il 10 genn. 1449, ma Francesco Sforza, ormai al potere in Milano, lo fece arrestare con un pretesto e detenere per oltre un anno in Pavia, costringendolo così a riscattarsi con la cessione della città.
Da quel momento G. e il fratello si volsero contro lo Sforza aderendo nel 1451 all’alleanza guidata da Venezia. Guglielmo tentò di riprendere Alessandria ma invano, poiché gli fu contrapposto Bartolomeo Colleoni; nel 1452, inoltre, venne giustiziato il condottiero sforzesco Giovanni Della Noce, accusato di intrigare con Giovanni IV. L’intervento di Renato d’Angiò ottenne infine la riconciliazione fra lo Sforza e i Monferrato e si giunse così alla pace di Lodi (9 apr. 1454) nella quale essi figurano come confederati di Venezia; ma ciò non risparmiò loro condizioni molto dure, poiché il 17 luglio 1454 furono costretti a restituire al duca di Milano tutte le località del territorio alessandrino nel frattempo occupate; di esse soltanto Felizzano e Cassine vennero date in feudo a Guglielmo.
La cessazione delle guerre nell’Italia settentrionale era stata favorita anche dalla notizia della caduta di Costantinopoli in mano ai Turchi, ma dopo la prima forte impressione i signori italiani erano rimasti per lo più inerti. Nonostante i Paleologi di Monferrato, per la loro stessa origine, avessero una tradizione ben radicata di rapporti con gli imperatori d’Oriente, tanto G. quanto i fratelli rimasero indifferenti di fronte all’invito di partecipare a una crociata espressamente predicata nelle loro terre dal francescano Roberto Caracciolo da Lecce: le recenti umiliazioni subite e le condizioni stesse del Marchesato non incoraggiavano certo progetti di avventure orientali.
G., ormai quarantenne, manifestò solo allora preoccupazione per la continuità della dinastia e decise di prendere in moglie Margherita, figlia di Ludovico di Savoia e di Anna di Cipro, sua cugina in secondo grado; la sposa gli portò in dote 100.000 scudi esigendo di vincolare come controdote Trino, Morano, Borgo San Martino e Mombaruzzo, ma le nozze furono sfarzosamente celebrate a Casale soltanto nel dicembre del 1458.
G. non aveva trascurato i tradizionali rapporti della sua casa con l’Impero: nel 1451 Federico IIII lo invitava a partecipare alla sua incoronazione romana, invito che allora non poté essere accolto; in compenso l’imperatore lo incaricò più tardi di dirimere in suo nome la “controversia Teutonici”, una causa che riguardava l’eredità di un mercante tedesco morto alcuni anni prima nella colonia genovese di Pera: il processo venne infatti discusso a Casale a partire dal 1456.
Nonostante il nuovo legame parentale contratto di fresco con i Savoia, venne maturando in G. l’intenzione di staccarsi politicamente dalla lunga fedeltà verso di loro. Tra 1459 e 1460 promise aiuto ai conti di Valperga, ribellatisi al duca Ludovico, e rifiutò di far parte del tribunale imperiale che doveva giudicarli. Non a caso proprio in quest’ultimo anno G. richiese a Federico III un diploma che annullasse ufficialmente la soggezione cui il padre e lui stesso erano stati costretti nel 1435, ma la pratica fu lunga e il desiderato documento – semplice, costosa formalità giuridica – giunse soltanto l’8 genn. 1464, quando G., ammalato, era ormai inabile a esercitare il potere.
Morì in Casale Monferrato il 19 genn. 1464 alle 9 di sera, senza lasciare alcun figlio legittimo. Fu sepolto accanto al padre nella chiesa di S. Francesco di Casale.
Galeotto Del Carretto, che potè conoscere G. di persona, ne lasciò un breve profilo nelle sue cronache in prosa e in versi, descrivendolo (col. 1232) come ” signore elegantissimo de bellezze, alquanto di color rosso, non grande come Guglielmo e Bonifacio, né di tanto buona complexione quanto loro”; non meno notevoli di quelle fisiche appaiono le sue doti intellettuali e morali: ospitale e caritatevole, alieno da odi e rancori, “viver ben con tutti fuo suo stile”, non solo, ma fu “eloquentissimo et real signore, liberalissimo sopra tutti i principi soi contemporanei” nonché “de grande et perspicace ingegno”; per quanto non fosse mai uscito dai suoi domini (affermazione che non è però da prendersi alla lettera), era assai curioso di notizie relative a paesi lontani e così informato su di essi da poterne parlare come se ci fosse stato di persona.
Benvenuto Sangiorgio (p. 325) conferma che fu “munifico, gentile e benignissimo signore” e volle al suo servizio soltanto gentiluomini. Lodi che, per quanto sappiamo, non risulta facile estendere alla sua attività politica; soltanto in occasione della guerra del Finale è possibile dire che egli fu, in senso positivo, “uno dei protagonisti della vicenda” (Olgiati, 1993, p. 138).
Sede abituale del suo governo fu Casale, dove, riprendendo progetti già propri del genitore, caldeggiò l’unificazione degli ospedali in un unico ente e protesse gli studi umanistici.
Ebbe rapporti con Antonio Astesano, che gli dedicò un’epistola poetica; intorno al 1450 chiamò a corte Guiniforte Barzizza che l’anno, dopo, alle esequie in onore di Amedeo VIII, pronunciò in suo nome un’apprezzata orazione funebre. Giovanni Mario Filelfo soggiornò alla corte di G. tra il maggio del 1457 e l’ottobre del 1458. Sia nel caso degli ospedali casalesi, sia nei rapporti con gli umanisti si tratta però solo di “semi gettati” (Vinay, p. 129), che fruttificarono poi al tempo del successore Guglielmo VIII.
Si conoscono dieci monete battute a suo nome e provvedimenti legislativi da lui presi riguardo ai delitti commessi dai giovani non ancora emancipati (15 genn. 1459) e contro i falsificatori di monete papali e imperiali operanti nel suo dominio (21 sett. 1455).
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