Guglielmo
a cura di RAFFAELE TAMALIO
Scheda pubblicata in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. LXI, Roma 2003, pp. 1-11
La presente scheda è stata inserita grazie alla autorizzazione rilasciata dall’ISTITUTO DELLA ENCICLOPEDIA ITALIANA fondata da Giovanni Treccani [Prot. 495/04/DE del 19 novembre 2004] che si ringrazia per la disponibilità.
Secondogenito di Federico II, primo duca di Mantova, e di Margherita Paleologo, marchesa del Monferrato, nacque a Mantova il 4 apr. 1538 (e non il 24 aprile, come riportano le biografie). Quando rimase orfano di padre, il 28 giugno 1540, fu posto con i suoi fratelli sotto tutela della madre e degli zii paterni, il cardinale Ercole e il luogotenente imperiale e viceré di Sicilia Ferrante. Destinato, come molti Gonzaga secondogeniti, alla carriera ecclesiastica, volta a concludersi nel S. Collegio, fu indirizzato ad attività e studi convenienti a quel percorso.
La sua sorte mutò il 21 febbr. 1550 quando, con la tragica fine del diciassettenne fratello Francesco, duca di Mantova, morto in seguito a un banale incidente di caccia, G. divenne il destinatario del trono ducale. Il 24 apr. 1550 G. fu quindi riconosciuto duca ma, essendo dodicenne, il governo fu affidato di nuovo ai tre tutori, con la reggenza di fatto del cardinale Ercole fino al 1559.
A causa della grave forma di gibbosità cifotica che aveva colpito G. fin dalla nascita, i reggenti valutarono l’opportunità di assecondare il passaggio del titolo ducale a favore del terzogenito Ludovico; questi, dotato di una più brillante presenza fisica, si era trasferito dal 1549 in Francia per raccogliere le eredità feudali della nonna materna Anna d’Alencon, di cui sembra fosse il nipote favorito. In cambio G. avrebbe potuto fare affidamento, con il sostegno di ancor più sostanziose rendite, alla promettente carriera ecclesiastica alla quale, dopo di lui, era stato avviato il fratello minore Federico, che sarà creato cardinale a soli 23 anni nel 1563. L’opposizione di G. alla rinuncia al governo fu tuttavia irremovibile.
Durante la reggenza, il cardinale Ercole continuò nell’opera di ammodernamento amministrativo e territoriale dello Stato avviata negli anni del suo primo governo. Al periodo della tutela di G. appartengono quindi l’istituzione del magistrato della Rota, la costituzione di una regola fissa nei pesi e nelle misure e il miglioramento del porto fluviale di Mantova. Il potenziamento delle difese fortificate rese inoltre più sicura la città, grazie soprattutto al rifacimento della Cittadella di Porto, realizzata sotto la supervisione dell’altro tutore. Ferrante. Ancora agli anni della reggenza sono da far risalire i primi segnali degli ostacoli che G. avrebbe incontrato per il mantenimento del Monferrato e che fino al 1570 condizionarono la sua azione di governo, in particolare nella politica estera, nella quale dovette destreggiarsi in una delicata opera di equilibrio tra l’antagonista duca di Savoia, la Francia, la Spagna e l’Impero.
Nel 1536 il Monferrato era stato assegnato con arbitrato imperiale a Federico, padre di G., in seguito al matrimonio con Margherita Paleologo, ultima erede di quel Marchesato. Le prime difficoltà per G. sorsero il 2 marzo 1555 quando i Francesi con un colpo di mano si impadronirono di Casale, mantenendone il governo in nome del re di Francia fino alla pace di Cateau-Cambrésis (1559). Già prima della conclusione di quel trattato, la diplomazia gonzaghesca aveva dovuto respingere con fermezza le richieste della cittadinanza di Casale, che avrebbe preferito il dominio francese. I capitoli della pace restituivano invece la città al duca di Mantova, a dispetto delle rivendicazioni del duca di Savoia.
G. si occupò degli affari di governo dal 1556 e si affrancò definitivamente dalla tutela nel 1559, quando diede il via all’attuazione del suo programma per il Monferrato, destinato a scontrarsi in poco tempo con il regime di autonomia comunale di cui godeva Casale.
Fin dal tempo dei Paleologo la città aveva una propria amministrazione della giustizia e un proprio sistema economico e finanziario, prerogative che si contrapponevano al regime assoluto instaurato da Guglielmo. Convinto per questo delle difficoltà cui sarebbe andato incontro, già dal maggio 1559 egli meditò, in contrasto con lo zio Ercole, la scelta di permutare con gli Spagnoli il Monferrato con il Cremonese, territorio confinante con Mantova e quindi più agevolmente governabile. Alla permuta si oppose, l’anno successivo, oltre che i notabili cremonesi, lo stesso re di Spagna Filippo II, decisamente convinto che la discontinuità dei tenitori avrebbe garantito la fedeltà dei Gonzaga limitandone la forza.
Preso atto della posizione spagnola e sostenuto tuttavia da quella alleanza ormai consolidata, nel 1561 G. designò al governo del Monferrato la sorella Isabella la quale, essendo moglie dell’allora governatore spagnolo di Milano, il marchese di Pescara Francesco Ferdinando d’Avalos, poteva garantire la difesa grazie alle truppe spagnole del marito. Perdurando l’insofferenza in Casale, si optò per una più prudente via diplomatica: dalla fine del 1562 fu, infatti, la madre del G. ad assumere il governo per conto del figlio nel vano tentativo di sedare, come monferrina, i sentimenti ostili della popolazione.
Lo scontro si rivelò inevitabile quando fu avviata la costruzione di un forte alle porte della città da parte dei ribelli cittadini, animati da un favorevole responso imperiale all’autogestione (28 dic. 1564), Appoggiato da numerose truppe del governatore di Milano, G. fece il suo ingresso a Casale nel giugno 1565 mentre i ribelli si rifugiavano sotto la protezione del Savoia, sempre pronto a favorire ogni movimento antimantovano.
Emanuele Filiberto si recò, nel maggio del 1566, alla Dieta di Augusta per appoggiare le rivendicazioni dei Casalaschi, ma allo scopo di contrastarne l’azione fu intrapresa da G., in quel mese, un’analoga missione nella città tedesca, dove riuscì a ottenere l’intervento dell’imperatore presso il Savoia affinché questi non sobillasse la popolazione di Casale. I rapporti con la città si inasprirono ulteriormente dopo la morte della duchessa madre (28 dic. 1566); fu allora che il proconsole cittadino Oliviero Capello si recò a Roma per sostenere le ragioni della città, intromettendosi cosi nei già difficili rapporti tra il pontefice. Pio V, e G. a causa della mancata conferma da parte del papa del giuspatronato che dai tempi di Pio IV Mantova vantava sulla cattedrale.
Intercettate alcune missive del Capello nelle quali si rivelava ad altri fuorusciti l’interessamento del pontefice alla questione di Casale, G. si recò di nuovo nella città nel settembre 1567 con l’intento di porre fine definitivamente alle rivendicazioni dell’esasperata popolazione locale. Il 5 ottobre, con il fattivo sostegno del cugino Vespasiano Gonzaga, signore di Sabbioneta, G. sventò una congiura contro di lui. La feroce ritorsione del duca non si fece attendere e Oliviero Capello fu ucciso nella sua abitazione da un altro fuoruscito, mentre i ribelli venivano arrestati. Nelle mani di G. cadde anche Flaminio Paleologo, figlio naturale dell’ultimo marchese Giovanni Giorgio; l’arresto del Paleologo, condotto in prigione nei pressi di Goito, innescò una crisi diplomatica con Filippo II, essendo il Paleologo cavaliere di Santiago e beneficiario di numerose altre onorificenze della Corona spagnola; tuttavia, nonostante le molte richieste del re in favore di Flaminio, questi non fu mai rilasciato e mori tre anni dopo, forse avvelenato, nella prigione di Goito. La lotta di Casale si concluse nel settembre 1569, quando i procuratori della città proclamarono la solenne rinuncia alla loro giurisdizione, convalidata nel 1571 dall’imperatore Massimiliano II d’Asburgo.
Altre minacce alla sovranità sul Monferrato giunsero a G. dalla famiglia, allorché nel 1576 dalla Francia suo fratello Ludovico rivendicò i territori piemontesi come parte dei beni che gli spettavano da parte materna. Con una decisa azione diplomatica presso la corte imperiale e con l’appoggio di Madrid, nel 1578 G. ottenne dall’imperatore ancora una volta un responso favorevole.
A vantaggio di G. giocò senz’altro la circostanza della sua parentela con il sovrano che egli aveva guadagnato diciassette anni prima, allorché il 26 apr. 1561 ne aveva sposato la sorella minore Eleonora, più vecchia di G. di quattro anni e ottava dei quindici figli dell’imperatore Ferdinando I d’Asburgo. Quel prestigioso parentado consolidò una ben architettata azione diplomatica, con la quale si era voluta rinnovare l’alleanza matrimoniale già perseguita dallo zio Ercole in occasione dello sfortunato matrimonio del precedente duca Francesco con Caterina d’Asburgo, anche lei sorella di Massimiliano: una conferma della scelta imperiale necessaria a garantire un solido appoggio.
Eleonora era stata accolta a Mantova con tripudio di feste e di spettacoli accompagnati da incidenti, soliti in tali occasioni, tra i quali l’incendio del vecchio archivio del Comune in cui erano ancora conservati i documenti delle antiche autonomie municipali, distrutti non senza malevoli voci con un possibile coinvolgimento dello stesso G., giacché in tal modo spariva ogni traccia di atti che potevano limitare la sua autorità assoluta. Una comune vocazione alla religione e alla pietà univa la sposa al G., ma nel caso di Eleonora raggiunse talvolta posizioni maniacali, non sconfessate da Guglielmo. Sembra che nel 1568 egli acconsentisse persino alla volontà della duchessa di serbare la castità; a quella data la scelta non avrebbe tuttavia pregiudicato la continuità dinastica, perché il 21 sett. 1562 era nato il primogenito Vincenzo, seguito, il 17 maggio 1564, dalla secondogenita Margherita e, il 16 genn. 1566, da Anna Caterina.
Sostenuto dalla successiva e definitiva assegnazione del Monferrato, il 4 ag. 1573 G. richiese al cognato imperatore l’elevazione di quel dominio a Ducato. Nonostante l’ennesima risoluta opposizione del duca di Savoia, la dignità richiesta fu concessa alla fine di dicembre del 1574, senza tuttavia il privilegio del titolo di granduca, che lo avrebbe elevato, nella gerarchia nobiliare dell’epoca, al rango dello stesso Savoia o del granduca di Toscana. Ciò rappresentò per G. una vera sconfitta, rimarcata in seguito da alcuni severi richiami provenienti dalla corte imperiale a non giovarsi nemmeno dei titoli di Altezza e Serenissimo con i quali in un primo tempo era invece solito essere appellato dai propri cortigiani, dagli ospiti che giungevano a corte e nella corrispondenza; a parziale consolazione gli giunse in seguito l’autorizzazione a fregiarsi di questi due ultimi titoli.
Se non sempre idilliaci si rivelarono i rapporti con la corte cesarea nonostante gli stretti legami di parentela, toni a volte di aperta avversione raggiunsero quelli con la Curia romana, malgrado il noto carattere molto pio di G. e i suoi principi severamente cattolici, manifestati con la profonda devozione alla reliquia del Preziosissimo Sangue conservata a Mantova, con continue richieste a Roma di indulgenze o di reliquie di santi e infine con la concessione di numerosi privilegi per gli ordini religiosi presenti nel Ducato.
Dotato di un forte senso del potere e mal sopportando l’intromissione dell’autorità ecclesiastica, G. reclamò spesso per se stesso il governo assoluto, ostacolando in più di un’occasione alcuni eccessi dell’autorità ecclesiastica; giunse persino a intromettersi nei verdetti dell’Inquisizione, non tollerandone l’interferenza nel potere temporale. L’episodio più clamoroso si verificò alla fine del 1567, quando G. inviò a Roma Teodoro Sangiorgio per chiedere al pontefice l’allontanamento dell’inquisitore, reo di avere arrestato senza il preventivo consenso ducale numerosi esponenti della corte, compreso il segretario Endimio Calandra e l’architetto Giovan Battista Bertani. La frattura con Pio V fu sanata in quell’occasione grazie alla mediazione di Carlo Borromeo, giunto appositamente a Mantova nei primi giorni del 1568. Con un successivo accordo G. si rassegnò ai processi, dei quali volle comunque essere sempre informato, in cambio dell’incameramento della metà dei beni confiscati ai condannati dall’Inquisizione, un’antica con-suetudine risalente all’epoca comunale.
Analoghi rapporti di diffidenza mantenne, oltre che con gli irriducibili rivali Savoia, con altre corti italiane, malgrado le unioni matrimoniali che lo legarono a Ferrara, Firenze e Parma. Viceversa, condusse con Venezia relazioni improntate a una conveniente cortesia e visitò la città in più occasioni progettandovi persino, dal 1583, l’acquisto, mai andato in porto, di un superbo palazzo sul Canal Grande.
Dopo aver superato indenne la peste, che tra il 1575 e il 1577 aveva flagellato il Mantovano e altri territori del Nord dell’Italia, il 24 febbr. 1578 G. rinnovava un’antica alleanza con il Ducato di Ferrara concedendo in sposa la secondogenita Margherita al duca Alfonso II d’Este, suo cognato, rimasto vedovo senza prole dalla precedente unione con Barbara d’Asburgo, sorella di Eleonora. L’anno successivo G. rifiutò l’altrettanto lusinghiera proposta di accordo giunta da Firenze di unire il primogenito Vincenzo con Eleonora de’ Medici, figlia di Francesco e di un’altra sorella di Eleonora d’Asburgo, Giovanna, morta di parto il 9 apr. 1578; il rifiuto fu dovuto alla forte avversione della duchessa di Mantova per la rivale della sorella a Firenze, Bianca Capello, nuova granduchessa di Toscana, ma forse anche alla necessità di isolare la Toscana, da poco elevata al grado di Granducato, in un momento in cui a Firenze si vagheggiavano mire egemoniche che avrebbero potuto dimostrarsi pericolose nei confronti di Ducati minori come Ferrara, Mantova e Parma. Non fu dunque un caso che migliore sorte toccasse all’altra trattativa, intavolata con Parma forse proprio in funzione antifiorentina, per far sposare Vincenzo con la quattordicenne Margherita Farnese, figlia di Alessandro, governatore spagnolo dei Paesi Bassi.
L’unione, conclusa con il solenne ingresso a Mantova dei due sposi il 30 apr. 1581, sanava finalmente gli antichi dissapori tra le due corti, che risalivano alla congiura di Piacenza del 1547, messa in atto contro Pier Luigi Farnese da Ferrante Gonzaga, e rinsaldò i rapporti di fedeltà alle Corone asburgiche di Madrid e Vienna. I legami furono, infatti, rafforzati dal matrimonio celebrato il 30 apr. 1548 tra la terzogenita Anna Caterina e il conte del Tirolo, Ferdinando d’Asburgo, altro cognato, essendo anch’egli fratello di Eleonora, madre della sposa. L’unione politico-matrimoniale con i Farnese era tuttavia destinata a fallire clamorosamente dopo solo un anno, quando Ranuccio Farnese, fratello della sposa, riconduceva a Parma Margherita non essendo essa in grado di consumare il matrimonio a causa di una malformazione congenita.
Qualche mese dopo G. dovette mettere a tacere un altro scandalo, l’assassinio a Mantova il 3 luglio 1582, a opera di Vincenzo Gonzaga, del nobiluomo scozzese James Crichton, ospite da alcuni mesi nella corte mantovana, dove era divenuto, per le sue prodigiose qualità dialettiche e di erudito in molti campi, uno dei favoriti del duca.
Quando era in corso l’annullamento del primo matrimonio, nel 1583 furono riprese le trattative con Firenze per dare in sposa a Vincenzo Gonzaga Eleonora de’ Medici, che incontrarono tuttavia le diffidenze del granduca Francesco e ancor più di Bianca Capello, desiderosa di un riscatto nei confronti della duchessa di Mantova.
Il riscatto prese la forma di una prova di virilità cui doveva essere sottoposto il principe di Mantova alla presenza di numerosi testimoni. Invogliato forse anche dall’ingente dote di 300.000 scudi d’oro che avrebbe accompagnato la sposa, G. acconsenti all’esibizione, anche per tacitare le voci fomentate da Firenze su una presunta incapacità del figlio Vincenzo.
Questo secondo matrimonio, oggetto anch’esso di numerosi pettegolezzi in molte Cancellerie europee e di successive ricostruzioni storiche e letterarie, fu celebrato infine a Mantova il 29 apr. 1584, e il 7 maggio 1586 fece seguito la nascita dell’erede primogenito Francesco che insieme a quella del secondogenito Ferdinando, avvenuta il 26 apr. 1587, fugava i timori sulla successione al Ducato di Mantova e del Monferrato.
Già da qualche anno G. era solito ritirarsi a Goito, dedito, come riferiscono i cronisti, alla preghiera e alle letture pie. Per ingrandire quella residenza di campagna aveva chiamato a lavorarvi dal 1584, oltre a Bernardino Facciotto, l’architetto mantovano Pompeo Pedemonte e il fiorentino Francesco Traballesi. Nel palazzo di Goito G. concluse la sua esistenza: colpito 1’8 ag. 1587 da una febbre improvvisa di presumibile origine malarica, vi morì la sera del 14 ag. 1587. Il suo corpo fu trasportato a Mantova e sepolto ai piedi dell’altare maggiore della basilica palatina di S. Barbara, chiesa che egli aveva voluto edificare dal 1562 in seguito alla nascita del primogenito e che aveva dotato di preziosi apparati iconografici, spendendo 600.000 scudi d’oro.
Alla sua morte circolarono voci, prontamente riprese e diffuse dagli ambasciatori veneri, di un ingente tesoro monetario trovato da Vincenzo nel “Camerino ferrato”, accumulato con esasperata parsimonia. Se anche vera nei fatti, ma non nelle cifre favoleggiate dai Veneziani, tale circostanza consegnò ai posteri la figura di un sovrano esageratamente avaro. Anche in seguito a tale leggenda, smentita dalla sola cifra profusa per la basilica di S. Barbara, il ducato di G. è stato spesso presentato dalla storiografia come un periodo grigio e tormentato, un giudizio condizionato dall’imperfetta figura fisica del duca, dal suo egocentrismo e dalla sua circospezione. A enfatizzare la fama negativa hanno contribuito i sanguinosi avvenimenti nel Monferrato, ma anche i dissapori sortì nell’educazione di un erede dall’aspetto fisico e dal temperamento affatto dissomiglianti dal suo, cui fecero seguito le umiliazioni subite in seguito alle sofferte vicende matrimoniali di quel figlio e, non da ultimo, il confronto con il successivo governo di Vincenzo, nettamente in contrasto per la generosità e la maggiore facilità nella spesa. Di G. sono stati sottolineati, forse con troppa enfasi, il suo dispotismo spieiato, analogo peraltro al dispotismo fanatico di molti altri sovrani dell’epoca, il sofferto insuccesso diplomatico legato alla questione del titolo di granduca e la sua morbosa attenzione alle questioni della borsa.
È certo che egli non fu amato neanche da molti dei suoi contemporanei compresi alcuni cortigiani, che fecero circolare, unitamente ad altri pettegolezzi, voci sulle relazioni che egli avrebbe intrattenuto con giovani paggi, alimentate ceno dalla nota decisione della moglie di serbare la castità, ma anche dal tentativo, che si diceva fosse stato operato da G. presso il vescovo di Mantova, di non considerare la “sodomia” tra i peccati cosiddetti “riservati”, e poterla cosi praticare con minore pericolo per la salvezza dell’anima. Le voci scaturirono da uno scandalo scoppiato un anno prima della sua mone e che vide coinvolti esponenti della corte, tra cui Bernardino Pia e Camillo Luzzara, forse a causa di una loro esclusione in seguito al processo di riorganizzazione amministrativa messo in atto da Guglielmo.
Nonostante i giudizi negativi espressi più volte dagli storici sul Ducato di G., la critica più recente ha annoverato invece quegli anni come tra i più prosperi della storia gonzaghesca: una situazione di fioritura economica che, alla luce degli studi di A. De Maddalena, si verificò grazie a un’accorta politica amministrativa e finanziaria. Il risultato fu ottenuto con un’avveduta conduzione di governo e un’oculata amministrazione delle entrate fiscali e patrimoniali, alle quali contribuirono i territori monferrini. De Maddalena ha, infatti, evidenziato come le entrate fiscali provenienti dalla Tesoreria del Monferrato fossero molto più consistenti di quelle mantovane sotto il governo di G., dai 15.000 ducati del duca Federico suo padre nel 1540, ai 20.000 del periodo delle reggenze di Ercole, fino alla somma di 120.000 ducati ricavata nel 1588.
Molti altri fattori contribuirono a quel risultato, tra i quali il contributo versato dagli ebrei in seguito alla riapertura (decreto del 1° ott. 1557) dei loro banchi, chiusi dieci anni prima dallo zio Ercole, e alle concessioni decennali rinnovate alle naturali scadenze con versamenti sempre più cospicui. In cambio G. offri agli ebrei quella tolleranza che non trovavano nel resto della penisola, dopo le severe misure restrittive introdotte da papa Paolo IV nel 1555, seguite da quelle di Pio V del 1566 e di Gregorio XIII del 1577.
Altro fattore importante fu la riforma nella gestione delle proprietà fondiarie e immobiliari del duca, che dal 1573 privilegiò il sistema di conduzione diretta.
Con G. il principato fu definitivamente trasformato in Stato assoluto, processo avviato dal cardinale Ercole nel 1540-50. Tale modifica interessò ogni settore del governo, dall’amministrazione politica alla vita culturale della corte. La modernizzazione dell’apparato statale promossa da G. rimase sostanzialmente immutata fino all’epilogo del Ducato, nel 1708. Nel campo della giustizia vi fu, nel 1557, l’istituzione di un Tribunale d’appello, detto della Rota dalla rotazione dei giudici, che il 31 ott. 1571 fu definitivamente sostituito dal Senato di giustizia, un tribunale i cui componenti erano scelti dal principe tra i suoi consiglieri più fidati.
Analoghi provvedimenti furono presi il 21 mai zo 1573 nel campo finanziario con l’istituzione del Magistrato ducale, un organo che unificava le competenze fino ad allora esercitate da ti diverse istituzioni: quella del Massaro, che occupava della cosa pubblica, quella del Fattore generale, che fino ad allora si era invece occupata dell’amministrazione del patrimoni personale del principe, e quella dei Maestri delle entrate. Fu in tal modo unificata in senso moderno la gestione dell’intero apparato economico-finanziario dello Stato. Sul modello della diplomazia veneziana, G. dispose che ogni ambasciatore, al proprio ritorno, dovesse riferire con una relazione su quanto operato durante il mandato.
Questi provvedimenti furono accompagnati da un’importante riforma della Cancelleria che prevedeva la revisione delle procedure contabili e amministrative elaborata con i suggerimenti di uno dei pionieri della ragioneria moderna, il monaco Angelo Pietra. Nel 1582 fu iniziato il riordinamento dell’Archivio e nel 158. fu concessa ai gesuiti la facoltà dell’istruzione pubblica, in applicazione del dettato testamentario di Ercole e di una ventennale sollecitazione della duchessa Eleonora.
Dopo l’acquisto di Luzzara, avvenuto ancora sotto tutela nel 1553, G. ottenne un altro piccolo allargamento territoriale quando nel 1573 fu investito del marchesato di Gazzuolo e Dosolo in seguito alla morte di Federico, ultime marchese diretto di quella linea (1568). Il passaggio delle terre di Gazzuolo e Desolo nelle mani di G. fu all’origine di una congiura ideata, sembra, dai nipoti del marchese desiderosi di ritornare in possesso del marchesato e di rimuovere dal trono di Mantova G. per sostituirlo con un altro membro della famiglia la macchinazione fu vinta anche grazie al rifiuto del duca di Savoia di appoggiare i congiurati.
Oltre che radicale riformatore delle istituzioni, G. fu l’artefice dell’altrettanto risolutiva trasformazione architettonica del palazzo ducale di Mantova che doveva essere finalizzata, nelle sue intenzioni, a esaltare la contemporanea trasformazione del principato in Stato assoluto.
Il processo di rinnovamento, posto in tutta evidenza dagli studi di P. Carpeggiani, prese il via dall’autunno del 1556 con il prefetto delle Fabbriche Giovan Battista Bertani, che curò la realizzazione dell’appartamento di G. in Corte nuova, e di altri notevoli interventi fra i quali l’edificazione della chiesa palatina di S. Barbara. Sotto la supervisione vigile di G. il palazzo si trasformò, da un insieme di edifici non aggregati, in un corpo unico e armonico, nelle intenzioni del principe immagine del proprio potere assoluto. L’opera avviata con il Bertani, morto nel 1576, fu poi proseguita da Bernardino Pacciotto, al quale G. affidò l’integrazione di giardini, piazze, loggiati, gallerie, esedre e cortili, che fissarono in maniera definitiva l’aspetto della residenza ducale. Medesime finalità di esaltazione del proprio potere e della dinastia sono da ravvisarsi nelle scelte compiute in quegli anni da G. nell’ambito delle arti figurative. Consapevole del prestigio derivante dal possedere una ricca e raffinata collezione artistica da poter orgogliosamente mostrare a glorificazione della propria grandezza, G. incrementò il già nutrito patrimonio artistico ereditato dai predecessori con la decorazione degli ambienti interni del palazzo. Si deve fare risalire a G. l’origine di quel vero e proprio museo d’arte rappresentato dalla galleria dei Gonzaga, ancor più meticolosamente perseguito dai suoi successori Vincenzo e Ferdinando ma spogliato e poi definitivamente disperso dal 1627. Un progetto di committenza per il quale G. si avvalse, tra gli altri, dell’opera dei mantovani Lorenzo Costa il Giovane, Teodoro Ghisi e Ippolito Andreasi, ma che vide la sua massima realizzazione nell’esecuzione da parte di Iacopo Tintoretto e della sua scuola, tra il 1578 e il 1580, delle otto monumentali tele denominate Fasti gonzagheschi, che rappresentano il sigillo della sua committenza artistica. Le tele, oggi alla Alte Pinakothek di Monaco ma in origine poste a decorare le due stanze del palazzo denominate “dei Duchi” e “dei Marchesi”, rappresentavano l’autenticazione della propria nobiltà e del proprio dominio derivanti dall’autorità imperiale, con la quale egli si era imparentato. Le sue raccolte artistiche si arricchirono di statue antiche fatte acquistare a Roma per il tramite del vescovo Girolamo Garimberto e poi esposte in un’apposita galleria di palazzo.
Analogo favore concedette G. allo sviluppo della vita letteraria, teatrale e musicale a corte. Favorì, patrocinandoli più volte, gli eventi proposti dai numerosi letterati, commediografi e commedianti accolti a corte, e protesse, tra gli altri, Curzio Gonzaga – che svolse al suo servizio delicate missioni diplomatiche -, Ascanio de’ Mori da Ceno, suo fedele funzionario di governo, Bernardo Tasso, padre di Torquato, anch’egli suo funzionario, e l’israelita Leone de’ Sommi, indiscusso protagonista della cultura teatrale mantovana.
Per G. la musica fu una viva e poliedrica presenza: mecenate, produttore e severo committente, egli fu anche compositore e teorico della composizione. Verosimilmente istruito nell’arte musicale da Jachet de Mantua – già magister puerorum (dal 1526) poi maestro (dal 1534 sino alla mone) presso la cappella della cattedrale mantovana di S. Pietro, ma di fatto alle dirette dipendenze del cardinale Ercole ai tempi della lunga reggenza – G. si dedicò ben presto alla composizione, otium che coltivò con costanza anche quando fu investito dei pieni poteri.
Tra le prime notizie di interesse musicale figura la spedizione di carta rigata per ” componer di musicha” inviatagli a più riprese da Venezia per suo uso personale da vari intermediari, tra i quali Claudio Merulo da Correggio (negli anni 1563, 1566, 1574). Per la correzione delle proprie composizioni egli cercò sempre l’ausilio e il giudizio di maestri attivi in corte e al di fuori di essa: nota è la correzione da parte di Giovanni Pierluigi da Palestrina di suoi mottetti (1570) e di una messa (1574), ma risulta parimenti documentato il coinvolgimento di Jakob van Wert e di Benedetto Pallavicino durante la preparazione della versione definitiva dei Magnificat (1586).
A partire dagli anni Ottanta, G. trasferì parte delle responsabilità e degli incarichi di rappresentanza al suo successore, il che ebbe conseguenze anche su aspetti di interesse musicale. Anzitutto cominciò ad adattare i ruoli musicali di corte alle diverse propensioni di Vincenzo e della nuora, a ciò sono da ricondurre i tentativi di assunzione di Luca Marenzio (1580,1583) come maestro da camera da affiancare a J. van Wert, e il reclutamento della bolognese Laura Bovio (1581), quale dama di compagnia esperta di musica, per Margherita Farnese. G. si impegnò inoltre nel riordino delle proprie fatiche compositive: lavorava alla revisione e alla preparazione delle stampe soprattutto in estate, durante i sempre più lunghi soggiorni nella residenza di Goito. Nello stesso periodo fece costruire nell’ambito del palazzo ducale un più intimo appartamento, dotato di una sala prevalentemente destinata all’esecuzione della musica profana: la sala dello Specchio, recentemente ritrovata, nella cui anticamera fece forse collocare la tela del Tintoretto dal titolo programmatico di Le nove muse in aera. Dallo stesso appartamento G. poteva ammirare il capolavoro della propria vita: la basilica di corte dedicata a S. Barbara.
La sua non occasionale propensione per la musica fu uno degli elementi fondanti dell’ambizioso progetto della basilica, in cui il senso del potere statuale si fondeva con la pietà religiosa e con l’aspirazione a una profonda restaurazione della dignità e del decoro cultuale in tutte le sue pronunce devote, liturgico-musicali e didattiche, in accordo, ma nel contempo in piena autonomia, con il dettato tridentino. Il progetto di dotare la basilica di corte di una liturgia e di un repertorio musicale peculiari fu per G. assai precoce. Le trattative degli inviati gonzagheschi presso la sede papale furono avviate durante la prima edificazione della chiesa (1561-62), anteriormente dunque alla fine del concilio di Trento, e si protrassero sino al 1580 quando – dopo il coinvolgimento di decine di cardinali, una stampa intermedia dei libri liturgici ” barbarini” (Venezia, Domenico Nicolini, 1571) e infinite mediazioni – il Messale e il Breviario “S. Barbarae” ricevettero la definitiva approvazione da parte di papa Gregorio XTTT (bolla Cum ex insigni) e poterono quindi essere più volte stampati (Giunta, Nicolini, Osanna). Fra i libri liturgici di singole diocesi, approvati in Italia dopo il concilio, quelli di S. Barbara furono preceduti solo da quelli ambrosiani della diocesi milanese di ben più remota tradizione.
Per la chiesa di corte G. ottenne altri privilegi: la collegialità, ossia la dipendenza diretta dalla Sede papale e non da quella vescovile, un cerimoniale proprio e specifiche costituzioni. La storia della conquista di tali autonomie liturgiche e giurisdizionali è inscindibile da quella delle contemporanee vicende musicali. G. infatti non si accontentò di dotare la sua chiesa di un pregevole organo costruito da Graziadio Antegnati (1565), di una cappella musicale stabile affidata alla guida di J. van Wert (dal 1565), di una solida struttura didattica nell’ambito della quale Giovanni Giacomo Gastoldi assolveva il compito di maestro di contrappunto, e persino di una campana perfettamente intonata in do, ma volle anche un repertorio musicale specificamente concepito e rispondente alle proprie convinzioni teorico-musicali. A tale fine promosse, in piena autonomia rispetto alla Sede papale, una riforma del canto piano, ossia una emendazione del canto gregoriano di con-suetudine romana dai ” barbarismi et mali suoni” (5 nov. 15783 Arch. di Stato di Mantova, Arch. Gonzaga, b. 923, Giovanni Pierluigi da Palestrina a G.): a quel lavoro di correzione forse lavorò egli stesso in collaborazione con altri compositori di corte (i codici contenenti quel repertorio sono conservati presso l’Arch. storico diocesano di Mantova). Inoltre G. commissionò brani polifonici per l’ufficio (mottetti, salmi, inni) composti sui testi liturgici riformati secondo l’uso “barbarino”, e soprattutto messe.
La più celebre commissione è quella a Giovanni Pierluigi da Palestrina che, per la basilica palatina, compose mottetti e un notevole numero di messe (dieci o undici, di cui nove conservate a Milano, Biblioteca del Conservatorio, Fondo S. Barbara), concepite secondo i dettami tecnici e stilistici imposti da G.: dal carteggio intercorso con il maestro romano (si tratta delle sole lettere palestriniane sinora conosciute) si apprende che in S. Barbara si praticavano messe in forma di alternanza (alternatim) tra polifonia e canto piano, scritte in severo stile contrappuntistico e imitativo, ossia “fugate continovamente ” (Arch. di Stato di Mantova, Arch. Gonzaga, b. 2207).
A tutt’oggi il repertorio polifonico per la basilica palatina, arricchitesi grazie alle commissioni ducali, ma anche agli invii e alle dediche da parte di compositori forestieri, rappresenta un ricco e rarissimo documento della storia musicale postconci-liare. Al repertorio G. contribuì con proprie messe, mottetti, inni, magnificat; benché tali composizioni siano state al tempo tramandate per lo più prive dell’indicazione dell’autore, anonimato confacente al rango di un cosi aristocratico dilettante, le fonti archivistiche come gli inventari e le lettere, nonché le annotazioni apposte posteriormente a taluni manoscritti musicali, consentono di fissare con sicurezza il catalogo delle sue opere.
Musiche a stampa: [17] Madrigali a cinque voci novamente posti in luce…, Venezia, Angelo Gardano, 1583 (il primo madrigale, Padre ch’el ciel la terra e ‘l tutto reggi, era già stato stampato in J. van Wert, Il quarto libro de’ madrigali a cinque voci…, Venezia, Antonio Gardano, 1568, recante l’attribuzione all'”Illustrissimo et Eccellentissimo signor Duca di Mantova”); [22] Sacrae cantiones quinque vocum…, ibid., Angelo Gardano, 1583 (14 anche in versione manoscritta: Milano, Biblioteca del Conservatorio, Fondo S. Barbara, 8, 10, 19);Magnificat, ibid. 1586 (a quattro voci, primo versetto, secondo versetto; irreperibili).
Musiche manoscritte: inno Te Deum laudamus (Casale Monferrato, Arch. capitolare, Mss., Ad usum divi Evasij…, 1594; Mantova, Arch. storico diocesano,Mss., Missae sex adsunt dulci modulamine voces…, 1616; Udine, Arch. del Duomo,Mss., Missae sex cum hymno Te Deum…, 1622); tre messe a cinque voci,Apostolorum, In duplicibus maioribus, In duplicibus minoribus (Milano, Biblioteca del Conservatorio, Fondo S. Barbara, 7/a, 7/b, 85, recanti l’attribuzione “Serenissimi”); mottetto Ascendens Christus in altum (ibid., 8, non incluso inSacrae cantiones).
Edizioni musicali moderne: Sacrae cantiones quinque vocum (Venice 1583). Two motets from Milan, Biblioteca del Conservatorio…, a cura di R. Sherr, New York-London 1990; Madrigali a cinque voci (Venice 1583), a cura di J.A. Owens – M. Nagaoka, New York-London 1995.
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