Arianiti Costantino

detto Cominato e Comneno

(Durazzo ca 1456 – Montefiore Conca [Rimini] 1530)

A cura di Pierluigi Piano

Liberamente tratto da F. Babinger, voce Arianiti, Costantino, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 4, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana 1962, pp. 141 – 143, integrato con Giorgio Fiori, Gli Arianiti, una famiglia albanese alla corte di Monferrato, <Rivista di storia arte archeologia per le Province di Alessandria e Asti, CVIII (1999), pp. 67 – 82 e www.condottieridiventura.it

Nacque verso il 1456 probabilmente a Durazzo, da Giorgio, feudatario albanese noto per le sue lotte contro gli invasori ottomani in Albania, e dalla sua seconda moglie Pietrina, figlia primogenita di Oliviero Franco, pugliese, barone di Taurisano, vicario del re di Napoli in Puglia, che a sua volta aveva sposato una figlia di Centurione Zaccaria, principe di Morea.

Giorgio Arianiti, dopo una vita dedicata quasi interamente alla lotta contro il pericolo turco, concluse i suoi giorni sotto la protezione della Serenissima probabilmente a Durazzo (certamente non dopo il 1461), come risulta da fonti veneziane (ASVe, Senato Mar, vol. VII, c. 23).

Rimasta vedova con tre figli maschi Pietrina il 3 settembre 1463 si era presentata davanti al Senato veneziano, invocando protezione e sostentamento per i suoi figli: Tommaso, Costantino ed Arianito. Il primo, Tommaso, morì senza successione prima del 1484, mentre il terzo preferì tornare in Albania, passando all’islamismo ed ottenendo cariche militari, anche se poi finì tragicamente, ucciso dai suoi stessi compatrioti.

A Paolo Quirini, bailo e capitano di Durazzo, fu ordinato di interessarsi attivamente della questione tanto che il 13 maggio 1464 i tre figli di Giorgio furono riconosciuti patrizi veneziani. Di lì a poco sembra che Pietrina abbandonasse Durazzo, fino ad allora sua rifugio, per ritornare nella sua patria salentina (a Lecce la famiglia possedeva sicuramente dei beni), ma poco dopo essa dovette trasferirsi a Roma (1484-1486), dove ottenne dalla Curia pontificia la concessione di un aiuto finanziario per sé e per i suoi figli. Costantino entrò al servizio del papa Sisto IV arrivando alla carica di protonotario apostolico, anche se non aveva mai preso i voti; d’altronde era del tutto privo di effettiva vocazione religiosa.

Nel 1483 i veneziani lo riconfermano nel patriziato veneto (ASVe, Misti del Consiglio dei X, vol. XXI, c. 117v, vol. XXXI, c. 228v, vol. XXXII, cc, 2, 29).

Nel 1484 era morta di parto Elena di Bresse, figlia del conte Giovanni di Penthièvre, Elena aveva sposato l’anno precedente l’anziano Bonifacio III Paleologo, che nel 1483 era succeduto al fratello maggiore Gugliemo VIII, la scelta del Marchese di Monferrato, benché ultra sessantenne, cadde – con il consenso dell’Imperatore, Federico III d’Asburgo, su Maria Brancovic, figlia dell’ex despota di Serbia, Stefano, e di Angelina Arianiti, bella, ma cagionevole di salute.

Suo padre era stato cacciato dalla Serbia da una sommossa popolare nel 1459 e si era rifugiato presso a Vienna presso la Corte imperiale, ove la figlia Maria fu poi allevata. Ben volentieri l’imperatore la sistemò con il vantaggioso matrimonio con il non più giovane marchese Bonifacio (III), su cui essa esercitò, poi, una notevole influenza, tanto più che oltre alla figlia Margherita, nacquero Guglielmo IX nel 1486 e Gian Giorgio nel 1488. Nel 1486 Costantino rinuncia all’incarico di protonotario apostolico e passa al servizio della nipote Maria Brankovic, marchesa di Monferrato. Ben presto divenne il principale confidente della marchesa. Questa forte dell’ascendente goduto nei riguardi dell’anziano marito, fu da questi con testamento del 1491 nominata reggente nel caso si fosse verificata la successione del figlio primogenito in minore età.

Ancora prima della sua morte (4 marzo 1494), l’anziano marchese di Monferrato, aveva lasciato, di fatto, le redini del governo del piccolo stato padano.

Grazie ai buoni uffici della nipote, Costantino Arianiti contrasse il vantaggioso matrimonio con Francesca Paleologo, figlia naturale riconosciuta dallo stesso marchese Bonifacio.

Lui: «uomo di bella statura e di bello aspetto», ma pure «persona di poco valore, di nessun valore» sposò una delle figlie del marchese di Monferrato, che lo provvide dei mezzi finanziari per acquistare alcuni feudi di cui poi lo investì. Acquistò, da Defendente Suardi, Refrancore. Rivalta, che era stato di Pietro Bobba e che era stato devoluto al Fisco Marchionale. Ne fu investito il 12 marzo 1492. Nel febbraio 1492 era stato investito dallo suocero di Ozzano e delle porzioni condominiali di Terruggia. Alcuni anni dopo l’Arianiti acquistò le porzioni di Tonengo, Moransengo e Piazzo per cessione fattagli da Sebastiano e Gabriele Rota; ne ottenne l’investitura feudale il 12 dicembre 1499.

Il matrimonio con Francesca si colloca prima del 1492, si sposa la tesi del Fiori. Babinger nella sua scheda sull’Arianiti ritiene che il matrimonio sia avvenuto verso il 1489, si propende per una data successiva in quanto l’Arianiti solo dal 1492 poté disporre di fondi, probabilmente provenienti dalla dote della moglie, per poter acquistare dei feudi. Già da qualche anno, però, l’Arianiti e i suoi familiari avevano deciso di assumere il cognome della famiglia imperiale dei Comneno – sulla base della pretesa discendenza da essa – e di fregiarsi – altrettanto abusivamente – dei titoli di principe di Macedonia e di duca di Acaia, territori che mai erano stati in possesso della loro famiglia, che però da tali millanterie traeva nuovo prestigio e lustro.

L’imperatore, Federico III, per certo, già l’11 luglio 1489, scrisse al pontefice, Innocenzo VIII per raccomandargli Pietrina, vedova di Giorgio Arianiti, qualificandola come “vedova dell’antico principe di Macedonia”. Anche in seguito però i sovrani nei loro rapporti ufficiali riconobbero all’Arianiti sia il cognome Comneno che gli altri titoli principeschi di cui si fregiava; tra essi il papa Clemente VII che scrisse all’Arianiti il 25 gennaio 1528 riserbandosi di accettare le sue proposte, e l’imperatore Carlo V che il 6 febbraio 1529 gli concedette immunità e protezione; nonché il doge di Venezia il 17 marzo 1509.

Alla morte di Bonifacio Paleologo nel marzo 1494 era subentrato nel marchesato il figlio Guglielmo IX, ancora in minore età e pertanto sottoposto alla reggenza della madre Maria Brankovic, a sua volta assistita dall’Arianiti, che si trovò così ad essere contemporaneamente prozio e cognato dei due giovani nipoti, Guglielmo e Gian Giorgio.

Proprio in quell’anno vi fu un evento prima imprevedibile, dal quale l’Arianiti sperò di poter trarre il maggior vantaggio personale possibile, dando così corpo ai suoi sogni e alle sue inconsistenti vanterie. Smanioso di gloria e di espansioni territoriali, il re di Francia, Carlo VIII, scese in Italia per tentare di conquistare il regno di Napoli, quale preteso erede dei diritti dell’estinta dinastia degli Angioini; ma per avere libero passaggio nei vari Stati italiani, che avrebbe dovuto attraversare per giungere nel Meridione, fece correre la voce che il suo obbiettivo non era solo il regno napoletano, ma anche la Crociata contro i turchi, di cui quel regno doveva poi essere la base di partenza.

La bontà di tale intento doveva essere – almeno nelle sue intenzioni – il mezzo per tranquillizzare gli altri principi italiani, ovviamente non sempre disposti favorevolmente verso il nuovo intruso, e per indurli a non ostacolare o addirittura a favorire i suoi piani.

Appena l’Arianiti fu al corrente delle intenzioni del re francese, indusse la nipote Maria, da poco divenuta reggente, ad accogliere Carlo VIII con ogni onore, nella speranza che poi effettivamente conducesse una campagna contro i turchi ottomani che avevano occupato la sua patria serba, dopo aver scacciato la sua famiglia, che ne era stata sovrana. L’Arianiti, invece, sperava che il re, non appena conquistato il regno Meridionale, partendo dalla Puglia, invadesse per via marittima l’Albania e occupasse poi la Macedonia e l’Acaia, regioni in cui sperava di diventare un giorno effettivo signore e del cui abusivo titolo intanto si fregiava; in tal modo, quello che al massimo prima poteva considerarsi un sogno, avrebbe potuto divenire una ambiziosa realtà.

Nel settembre 1494 si trova ad Asti con 300 cavalli per unirsi ai Francesi, nell’ottobre accoglie a Moncalvo il re Carlo VIII e lo accompagna a Casale Monferrato. Il re cristianissimo lasciò ovviamente che sia Maria che suo zio coltivassero le loro speranze e attraversò pertanto facilmente il Monferrato; intanto però si era fatto consegnare dalla marchesa i suoi gioielli, con il pretesto di finanziare la futura Crociata. Entrò a Milano al fianco del sovrano.

Intanto l’Arianiti, in attesa della conquista del Meridione, si diede da fare per organizzare una flotta che potesse trasportare l’esercito regio dalla Puglia all’Albania; ma nel marzo 1495 la Repubblica di Venezia che non voleva buttarsi in tale fumosa avventura e che non vedeva di buon occhio l’invasione francese, bloccò le navi a Venezia e fece anche arrestare l’Arianiti che vi si era recato per seguire i preparativi; fu però subito rilasciato, avendo fatto valere la sua qualità di patrizio veneto.

Affianca i francesi contro le truppe della lega italica. È insignito del collare dell’Ordine di san Michele.

Dopo la battaglia di Fornovo, 6 luglio 1495, e la fuga del re verso la Francia, nell’agosto 1495 si fortifica in Casale Monferrato. Il 27 agosto 1495 muore improvvisamente Maria, reggente di Monferrato a soli 29 anni. Si aprì il problema della nuova tutela del giovane Guglielmo. Il re francese inviò allora a Casale il suo segretario Filippo de Commynes, signore di Argenton, che brigò affinché tale incarico – sia pure contro la volontà di una considerevole parte della nobiltà monferrina – fosse attribuito all’Arianiti. Carlo VIII sapeva di potersi fidare della sua amicizia ed inoltre era il più prossimo parente dei due giovani eredi Paleologo. Assunse così la carica di governatore del marchesato e di tutore dei due figli minorenni. Per staccarlo dall’alleanza francese, l’imperatore, Massimiliano I, eletto alla morte del padre Federico III, il 16 novembre 1495, lo riconobbe come «consanguineo» quale tutore dei due giovani marchesi di Monferrato, gli confermò la reggenza del Monferrato.

Tali rapporti si saldarono in varie missioni diplomatiche, nelle quali il Cominato poté eliminare almeno in un primo momento la sfiducia di Massimiliano I insorta assai presto nei suoi confronti, cosicché il 12 giugno 1496 l’imperatore manifestò il proposito di nominare da Augusta l’avventuriero suo vicario generale in quelle parti d’Italia sottoposte direttamente all’Impero. Tale progetto però non ebbe mai seguito, cosicché il principe di Macedonia e duca di Acaia si volse nuovamente al partito filo francese. Incoraggiando Carlo VIII a riprendere i suoi grandiosi progetti orientali. Egli stesso pensava di trarre dall’impresa grandi vantaggi, e Filippo de Commynes progettò di nominare l’Arianiti niente meno che re di Macedonia. Sennonché l’avventuroso progetto di invadere con una flotta che salpasse da Venezia l’Albania, per sollevarla contro i Turchi, fallì per il saggio comportamento dei Veneziani.

Nel settembre 1496 è in Monferrato con l’incarico di governatore di Casale Monferrato. Assicura a Gian Giacomo Trivulzio il passo e le vettovaglie necessarie all’esercito francese.

Nel dicembre dell’anno successivo, 1497, riceve a Casale il veneziano Niccolò Foscarini in missione diplomatica presso il duca di Savoja Filiberto.

Carlo VIII di Francia venne improvvisamente a mancare nel 1498, gli succedette il cugino Luigi d’Orléans, che assunse il nome di Luigi XII e che subito manifestò l’intenzione di proseguire i tentativi del suo predecessore per le mire francesi sul regno di Napoli, quale erede di Valentina Visconti, vantava diritti sul ducato di Milano, e la conquista di quello Stato divenne il suo primo obbiettivo. Varcate le Alpi nell’estate del 1499 arrivò a Casale, senza che l’Arianiti si opponesse perché la popolazione del marchesato era tutta a favore dei francesi, e vani furono perciò i tentativi di fargli mutar partito, come forse avrebbe preferito, dal momento che si era reso conto che nessun vantaggio personale gli sarebbe derivato dall’alleato francese.

Luigi XII gli impose di allearsi con lui e di mettergli a disposizione il piccolo esercito monferrino. L’Arianiti si pose malvolentieri a capo delle truppe del marchesato, nell’agosto 1499 si unì sotto Alessandria con l’esercito francese. Dopo la fuga di Galeazzo da San Severino, è lasciato da Gian Giacomo Trivulzio alla guardia della città con 800 cavalli.

Nell’ottobre 1499 si trova a Pavia; cade in disgrazia di Luigi XII per un permesso fornito ad alcuni nemici, che in tal modo erano riusciti a sfuggire alla cattura attraverso il Monferrato. In realtà il re francese diffidava dell’Arianiti, sospettandolo di voler cambiare alleanze, ed anche per compiacere alla popolazione monferrina che detestava il reggente. Di ritorno da Milano, nel novembre 1499, viene imprigionato in Vigevano dai francesi. Giudicato dal Trivulzio, dal la Trémouille e da altri capitani, è prima rinchiuso nel castello di Novara e poi condotto in Francia. L’amministrazione del marchesato è affidata al Ligny. I francesi confiscano i beni della moglie che si trovavano nel saluzzese.

Ai primi del 1500 riesce a fuggire dalla prigione con la complicità di un servo francese. Ripara prima a Ozzano e, dopo la cattura di Ludovico il Moro a Novara, in aprile, ad Acqui Terme. Cerca invano di riavvicinarsi alla Serenissima. Raggiunse la riviera di Levante, nel maggio 1500 sbarca a Pisa ed è assunto dai pisani: Questi ultimi lo licenziano, però, su pressione dei francesi; è trattenuto prigioniero per esser consegnato loro. Ai primi di giugno viene liberato da alcuni giovani che lo nascondono in casa di un cittadino. Sorge un tumulto ed è nuovamente imprigionato. A fine mese, a seguito del riavvicinarsi dei Francesi con i fiorentini, è liberato. Si imbarca su uno schifo ed è catturato in mare dai fiorentini. È incarcerato a Livorno. È liberato da alcuni cavalli pisani con i quali rientra a Pisa. Nello stesso periodo la madre, Pietrina, fa pressione su Venezia affinché intercedano in suo favore sui francesi.

Nell’agosto 1500 si mette al sicuro a Benevento, poco dopo è segnalato a San Leonardo, presso Manfredonia.

In quel periodo viene contattato dai fiorentini.

Nel dicembre 1500 compare a Venezia dopo essere stato svaligiato dei suoi beni.

Nel gennaio del 1501 si presentò di nuovo davanti al Senato di Venezia in pompa magna, secondo la plastica descrizione del Sanuto (Diarii, III, col. 1381). Nei mesi di febbraio e marzo è ricevuto dal doge Agostino Barbarico, chiede l’appoggio della Serenissima per i francesi, ma non riscosse molto successo, sicché si vide costretto a giocare un’altra volta la carta di Vienna, nella speranza di ottenere un incarico dalla corte imperiale. Nell’ottobre lo troviamo a Trento, al servizio dell’imperatore Massimiliano  d’Austria.

L’anno successivo, 1502, lo troviamo a capo di 200 cavalli leggeri. Sembrerebbe aver riguadagnato il favore imperiale. Massimiliano I lo nomina suo ambasciatore presso la Curia pontificia.

Nel 1504 nel febbraio è a Ferrara, dove viene accolto dal duca Alfonso d’Este, prosegue il suo viaggio per Roma, dove viene ricevuto in udienza dal pontefice.

Ad Osta, nel marzo 1504, incontra Cesare Borgia al fine di convincerlo a cedere allo stato della Chiesa le rocche ancora in suo possesso.

A Roma l’Arianiti iniziò la sua nuova attività diplomatica, per la quale si poté giovarsi dei suoi stretti rapporti con la Signoria di Venezia, così come della circostanza che il nuovo pontefice, Giulio II, apparteneva, come Sisto IV, alla famiglia dei Della Rovere, che gli concesse particolare fiducia. Una sua sorella, Maria, aveva sposato uno stretto parente della famiglia ligure, e l’Arianiti non mancò di sfruttare ampiamente questa situazione sotto entrambi i pontefici, in particolar modo dopo la sua espulsione dal Monferrato.

Nell’aprile 1504 gli è promessa da Guidobaldo da Montefeltro, capitano generale della Chiesa, una condotta di 80 uomini d’arme. È inviato in Germana, come ambasciatore per trattare la pace tra francesi ed imperiali. Nel maggio rientra in Italia, ma sembra non essere soddisfatto nelle sue richieste di condotta e di provvigione. Nel luglio 1504 è eletto governatore di Forlì e di tutta la Romagna. A Forlì fu ricevuto con grandi onori dall’arcivescovo di Ragusa, Giovanni di Sacco, e dal Montefeltro. Nel mese successivo è a Cesena, ma non poté operare per un’epidemia di peste.

Nel settembre 1504 si adopera per una tregua tra Niccolò Guerra da Bagno da una parte ed i Tiberti dall’altra. Incontra notevoli difficoltà nell’espletamento del suo incarico a causa delle lotte fra le varie fazioni; chiede vanamente truppe per poter controllare la situazione in Forlì ed in Cesena. Manda a Roma un suo emissario. Stanco di non ottenere risposte, si imbarca su un brigantino e giunge ad Ostia con l’agente imperiale, Luca Rinaldi ed un vescovo tedesco. Viene ricevuto dal Pontefice, Giulio II.

Nell’aprile 1505 rientra in Forlì e costringe ad una pace forzosa gli Orioli ed i Morettini.

Ha il comando della guardia palatina a Roma, con 300 cavalli greci e balestrieri a cavallo.

Nelle grazie del Pontefice è al suo fianco nell’ingresso in Perugina nel 1506. Nuovamente lo troviamo a Forlì nel settembre 1506.

Entra in Bologna al seguito di Giulio II nel novembre 1506.

Nel marzo 1507 domanda licenza di lasciare Forlì e la Romagna. Nell’autunno 1507 è in Germania per promuovere in Italia un’alleanza fra imperiali e francesi. Rientra a Rom nel novembre di quello stesso anno con la richiesta di Massimiliano I d’Austria di essere riconosciuto imperatore anche senza essere stato incoronato nella città eterna. I veneziani esercitano alcune rappresaglie nei suoi confronti. Nel marzo 1508 si lamenta con la Serenissima perché a Rimini alcune sue lettere dirette all’Imperatore sono state intercettate. Nel corso di una guerra con gli imperiali, nell’aprile del 1508, i veneziani conquistano in Friuli il suo castello di Belgrado, vicino a Cormons. In quello stesso anno Giulio II gli dà l’incarico di rivelare ai veneziani il contenuto delle clausole della Lega di Cambrai, in cambio della restituzione ai pontifici di Rimini e di Faenza.

Nel maggio 1509 si reca in Germania presso Massimiliano I, al quale consegna 50.000 ducati, affinché muova guerra alla Repubblica di Venezia. L’Arianiti, tornato in Italia, assale senza alcun successo Pizzighettone ed Asola.

Nel giugno patteggia con i Veneziani l’acquisto di Padova da parte degli imperiali e con Matteo da Busseto entra nella città.

Nel mese successivo, luglio 1509, sguarnisce di truppe il presidio di Padova per inviarle a Bassano del Grappa. La Serenissima riesce a recuperare la città eugubina, ne segue la fuga dell’Arianiti. È segnalato poco dopo a Venezia per un colloquio segreto con i membri del Consiglio dei Dieci. Si trasferisce a Vicenza ed è nominato capitano generale delle truppe italiane al servizio dell’Imperatore. Spinge i veneziani ad allentare le difese impegnate in Padovane e a riconquistare in Friuli: Gorizia e Trieste.

Nell’agosto 1509, raccoglie le sue truppe a Cittadella e si trasferisce all’assedio di Padova. Si pose prima a Limena e, poi, di fronte al Portello ed a Ognisanti.

Nel settembre 1509, sorgono numerosi contrasti nel campo per la mancanza di vettovaglie e per i ritardo nelle paghe. I francesi minacciano l’Arianiti di morte, perché lo sospettano di tradimento. Non ne mancavano i segnali, come quando fece levare l’artiglieria tedesca di fronte al bastione di Codalunga perché danneggiava troppo le fortificazioni avversarie.

E ben a ragione i sospetti francesi presero corpo quando, corrotto, con Gaspare da San Severino, abbandonò l’assedio, si diresse a Vicenza, contribuendo così al ritiro di tutto l’esercito.

Nell’ottobre ha l’incarico di difendere Vicenza con 2000 cavalli e 1500 fanti, che – però – non risparmiarono il territorio limitrofo con le loro incursioni e i loro saccheggi.

Nel novembre 1509 passò alla guardia di Verona. A fine mese dovette lasciare la città ed il comandfo delle truppe italiane a Gaspare da San Severino, a causa dei suoi dissapori con il de la Palisse, che lo aveva sfidato a duello. Rientrò a Roma da dove nel dicembre fu inviato in missione diplomatica a Firenze.

L’anno successivo, 1510, nel gennaio, al servizio della Serenissima, cerca di riavvicinare il Pontefice ai veneziani.

Nell’aprile 1510 lo troviamo a Ravenna da dove prosegue per la Germania. Ha mandato da Giulio II e da Venezia di trattare la pace separata con Massimiliano I d’Asburgo.

Il mese successivo il Pontefice lo manda a Pesaro e a metà mese è nominato custode generale del concilio apertosi in Laterano, che avrebbe dovuto tenersi in opposizione a quello valuto dal Re di Francia a Pisa. Si reca in Germania nonostante l’opposizione di Giulio II.

Nel giugno rientra a Roma. Paolo di Liechtenstein lo richiama in Germania. Nel luglio fa la spola per portare avanti le trattative di pace. È a Pesaro e a Rimini; salpa per Venezia, dove ha un abboccamento con il Doge; gli sono donati 300 ducati per le spese di viaggio. Tocca Mestre e Treviso, passa per Serravalle. Attraversa il Cadore nel mese di agosto e giunge a Bressanone.

Nel gennaio 1511, rientra dalla Germania in Cadore. Nel febbraio è a Chioggia dove si imbarca su una fusta e giunge a Ravenna. Punta su Lugo dove in quel momento soggiorna Giulio II. La sua missione non ha esito soddisfacente per le pretese dell’Imperatore.

Nel 1512 fu nominato capitano generale delle truppe pontificie dal Papa Giulio II Della Rovere, con cui aveva indiretti rapporti di parentela (Maria Arianiti, sorella di Costantino, aveva sposato Bartolomeo Giuppo Della Rovere, parente del pontefice), carica che gli sarà confermata anche da Leone X, anche oltre il 1517.

Nel maggio 1514 si trova a Roma all’apertura del Concilio in San Giovanni in Laterano.

Nel luglio 1514 incontrò in Trentino il cardinale Curzense e si recò in Monferrato per regolare alcuni suoi affari.

Nel marzo 1515, il pontefice Leone X gli concede in Signoria Fano. Nel giugno di quello stesso anno affianca gli svizzeri contro i francesi. Nel luglio 1515 entra in Monferrato alla testa di 8000 uomini.

Nel 1516 venne a Fano ed agevolò Francesco Maria della Rovere nel suo tentativo di recupero del ducato di Urbino.

Nel mese di settembre 1516 è esautorato di fatto nella signoria di Fano da Lorenzo de’ Medici, con il pretesto dei sempre più frequenti scontri fra le fazioni nella città.

Si stabilisce a Roma.

Qui, il 16 agosto 1521, Mercurino  Arboreo di Gattinara acquista da Costatino Comneno, principe di Tessaglia e di Macedonia (che vende anche a nome della consorte Francesca di Monferrato e dei figli), per tramite di due procuratori, il proprio fratello Lorenzo, protonotario apostolico e camerlengo del pontefice, e il proprio maggiordomo Carlo Gazzino, i beni di Terruggia, Ozzano, rivalta e Tonengo, unitamente a una casa in Casale, situata nel cantone di Montarone, davanti alla chiesa di S. Stefano, «que fuit quondam Facini Canis», per 30.000 ducati d’oro. (ASVc, Famiglia Arborio di Gattinara, mazzo 3).

Nel dicembre 1521, alla morte del Pontefice, Leone X, il collegio dei cardinali gli dà il comando di 800 fanti per mantenere l’ordine in città.

Nel febbraio 1522 si offre di prestare al collegio dei cardinali 800 ducati necessaria per dare un acconto sugli stipendi del gonfaloniere della Chiesa, Federico II Gonzaga.

Nel luglio concede un credito ad un uomo di Corfù, perché compia esorcismi per allontanare la peste da Roma.

Con breve papale del 21 giugno 1524 il Pontefice gli concede insieme a Mondaino il castello di Montefiore Conca, un borgo di montagna nei dintorni di Rimini.

Montefiore restò la sua abituale dimora, dopo aver perduto o venduto l’uno dopo l’altro i suoi possedimenti nel Monferrato.

Nell’agosto 1525 il collegio dei Pregadi concede ad un suo figlio la castellania di Torrenova

Nel maggio 1527 riesce a fuggire da Roma durante il sacco dei lanzichenecchi e si rifugia a Pescara.

L’8 maggio 1530 la morte la liberò dal «corpo languido et infermo» a Roma, secondo altri a Fano. E’ sepolto a Roma nella basilica dei SS. Apostoli o , secondo altre indicazioni, nella chiesa di Sant’Agostino.

Il suo testamento del 29 aprile 1530 si conserva, in minuta del notaio Lorenzo Leardini di Montefiore, nella Biblioteca comunale Gambalunga di Rimini (cfr. Monumenti riminesi autografi raccolti e conservati da Michelangelo Zanotti notajo collegiato di Rimini, XIV, c. 23).

Costantino Comneno Arianiti ebbe un solo maschio, Arianito, e ben sei figlie, alla cui adeguata sistemazione matrimoniale dovette provvedere. Per quelle vendite si può vedere quanto scrive Guasco di Biso, in particolare Rivalta, Tonengo e Piazzano furono venuti il 14 marzo 1521, Ozzano il 14 maggio successivo, Morasengo era stato ceduto il 28 gennaio precedente. Di Refrancore si dice che era stato venduto nel 1522, ma restituto nel 1529. Il 18 luglio 1516 Costantino Arianiti era venuto a convenzione con il Marchese di Monferrato per il castello di Montecucco.

Arianito, minorenne alla morte del padre, fu sottoposto alla tutela della madre che ancora per qualche tempo continuò ad abitare a Montefiore; poi il giovane ottenne la carica di prefetto delle truppe pontificie e si trasferì a Roma; maritò le altre sue sorelle e per dotare l’ultima di esse, Elena, che nel 1546 andò sposa al conte don Juan de Luna, castellano di Milano, ottenne l’autorizzazione a vendere il feudo di Refrancore al nipote, Leonardo di Tocco, che ne ottenne, poi, l’investitura feudale il 30 giugno 1547.

La vedova di Costantino Arianiti, Francesca di Monferrato, per quanto ormai anziana, ottenne a sua volta un’importante sistemazione presso Cristina di Danimarca, vedova di Francesco II Sforza, duca di Milano, e poi del duca Francesco di Lorena, che le diede l’incarico di governatrice o dama di compagnia delle proprie figlie.

Francesca si recò a Bar alla corte di Lorena e vi rimase fino ai primi mesi del 1561, all’atto del congedo il duca Carlo, figlio di Cristina, in ricompensa ai suoi servigi, le concedette una pensione annua di 4.000 scudi, con la facoltà di disporre per lascito testamentario di almeno seicento scudi. Tale particolare è spiegato nel codicillo della stessa Francesca del 1561. Il duca di Lorena si riservava però la facoltà di sostituire al pagamento annuo di 500 ducatoni a favore dell’erede designata da Francesca, l’esborso una tantum a favore della stessa erede, che era la nipote Andronica Arianiti, di 4000 ducati d’oro. Dalla documentazione conservata nell’archivio Tocco si può reperire anche copia della donazione di 1200 scudi d’oro (pari a 4000 ducatoni) fatta a Bar da Cristina di Danimarca, duchessa vedova di Lorena, a favore di Francesca il 25 giugno 1561, con successivo lascito della stessa il 26 giugno 1561 a favore dei figli di sua figlia, Andronica, maritata Tocco (perg. 87, 88); tale lascito fu poi annullata con il codicillo del 1561.

Prima di far ritorno in Italia, la Paleologo, dispose il 26 giugno del 1561 con testamento, rogato a Bar, capitale della Lorena, dai notai Nicola e Pietro Hardy, dei propri beni, beneficiando in particolare la giovane nipote Andronica, unica figlia superstite di Arianito, e il nipote Leonardo di Tocco.

Ritornata in Italia,si recò a Conegliano Veneto presso il genero, conte Giorgio Trivulzio, che comandava le truppe della Repubblica di Venezia, qui con un codicillo datato 17 dicembre 1561 confermò il lascito a favore di Andronica e dispose per altri legati.

Il codicillo di Francesca fu rogato a Conegliano Veneto dal notaio Francesco Collalto. In caso di morte di Andronica Arianiti, alla quale veniva lasciata la pensione di 500 ducatoni, senza lasciar prole, le venivano sostituite le figlie Deianira ed Elena, sposate rispettivamente con il conte Giorgio Trivulzio, presso il quale Francesca ora soggiornava, e con il conte don Juan de Luna, con altre clausole ininfluenti, annullando precedenti legati a favore del nipote Leonardo di Tocco.

In questo importante atto Francesca asserisce di essere figlia del defunto marchese Bonifacio III di Monferrato e si attribuisce il titolo di principessa di Macedonia, racconta, inoltre, le sue vicende presso i duchi di Lorena, suoi benefattori, presso i quali aveva dimorato fino a pochi mesi prima.

La prima delle sue figlie, Andronica, aveva sposato Carlo di Tocco, despota di Arta e principe pure titolare di Leucade, figlio del despota Leonardo e di Militza Brankovic, a sua volta figlia del despota di Serbia Lazzaro e Elena Paleologo, nata dal despota di Morea, Tommaso, e nipote di Costantino IV, ultimo imperatore di Bisanzio.

La seconda figlia di Costantino Arianiti, Pentesilea, aveva invece sposato Lek Dukagin, appartenente ad un’illustre famiglia albanese, trasferitasi nel Regno di Napoli.

La terza figlia, Ippolita, che era nata nel 1507, morì alla Meldola nel 1566 ed aveva sposato in prine nozze nel 1525 Zenobio de’ Medici, conte di Verrucchio e di Scorticata, e nel 1532 in seconde nozze Lionello Pio, signore di Carpi.

La quarta, Polissena, sposò nel 1524 Rinaldo Ottoni, signore di Matelica nelle Marche e morì prima del 1531.

La quinta, Deianira, sposò dapprima Gaspare Trivulzio, signore di Casteldidone, morto nel 1549, e poi il conte Giorgio Trivulzio di Melzo, condottiero al servizio della Repubblica Veneta, morì senza figli a Codogno nel 1572, nel 1556 Anne d’Alençon, marchesa di Monferrato, pagò a Deianira quanto ancora doveva per i servigi prestati da Francesca, durante la sua permanenza alla corte monferrina (ASMi, Notarile, Moriggia Gio. Giacomo, 1556 apr. 15.)

L’ultima figlia di Costantino e di Francesca, Elena, aveva sposato don Juan de Luna, rimasta vedova e senza figli, si ritirò a Genova, ove testò il 21 aprile 1589 a favore del pronipote Francesco di Tocco.

Arianito Arianiti morì a Torrechiara il 15 novembre 1551, combattendo alla testa delle truppe pontificie contro il duca di Parma Ottavio Farnese, e fu sepolto nella chiesa di San Giovanni di Parma.

Arianito lasciò un’unica figlia, Andronica, ultima degli Arianiti, che nel 1568 sposò il conte Orazio Trivulzio di Melzo, morto senza prole nel 1573. Andronica in seconde nozze sposò Giorgio Secco, conte di Mozzanica, che orgoglioso della parentela contratta con la presunta casa imperiale bizantina, assunse a sua volta, non meno abusivamente degli Arianiti, anche il cognome dei Comneno. Non ebbe però figli e la sua eredità passò agli inizi del Seicento, unitamente al cognome dei Comneno, nei discendenti di sua sorella Virginia, sposata con Socino Suardo, che assunsero, a loro volta, anche il cognome dei Secco Comneno; si estinsero a loro volta con un’altra Virginia, maritata alla fine del XVII secolo con un altro membro della famiglia Secco, il conte Stefano; la loro discendenza adottò a sua volta i cognomi dei Suardo e dei Comneno, ma si estinse poi definitivamente con il conte Fermo, morto senza prole nel 1841. L’archivio della loro famiglia è confluito in quello dell’Ospedale Maggiore di Milano, a cui il conte Fermo aveva lasciato tutti i suoi beni.

Bibliografia.

Franz Babinger, Das Ende der Arianiten, in Sitzungsberichte der bayerischen Akademie der Wissenschaften, Historish-Philosophische Klasse, Sitzungsberichte 1960, fasc. IV, pp. 1 – 95;

Franz Babinger, voce Arianiti, Costantino (detto Cominato e Comneno), in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 4, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana 1962, pp. 141 – 143;

Michail Dimitri Sturdza, Voce Arianiti, in Grandes Familles de Grèce, d’Albanie et de Costantinople, Dictionnaires Historique et Généalogique, Paris, Chez l’Auteur, 1983, pp. 217 – 218;

Giorgio Fiori, Gli Arianiti, una famiglia albanese alla corte di Monferrato, <Rivista di storia arte archeologia per le Province di Alessandria e Asti, CVIII (1999), pp. 67 – 82;

Voce Costantino Arianiti, in www.condottieridiventura.it .

Cfr. Archivio di Stato di Napoli, Archivio privato di Tocco di Montemiletto. Inventario, a cura di Antonio Allocati, Roma, Ministero dei Beni Culturali ed Ambientali, 1978, Strumenti, XCVII,  pp. 474.

Per i Secco Suardo Comneno cfr. V. Spreti, Enciclopedia Storico Nobiliare, Milano, 1922, vol. VI, p. 229.